di Valerio Magrelli | Disegni di Sara Salvemini
Da Orbetello a Bismantova, un poeta contemporaneo si lascia ispirare dal sommo collega in una traversata nel centro dell’Italia
Nella notte tra il 13 e il 14 settembre 1321 Dante Alighieri moriva a 56 anni a causa di febbri malariche. Divenne presto oggetto di lettura e culto grazie a Boccaccio, che lo fece rivalutare persino ai suoi concittadini di Firenze da cui era fuggito, e a Chaucer, padre della letteratura inglese: ne diffuse la fama che giunse fino ai Romantici. Anche per loro divenne fonte di ispirazione. Da 700 anni il “Sommo poeta”, che fece del volgare italiano la lingua di una nazione ancora lontana da essere tale, regala suggestioni. Anche ai poeti di oggi come Valerio Magrelli che si è mosso sulle sue tracce tra Toscana ed Emilia-Romagna. Un viaggio strano, quello che da Orbetello porta a Bismantova, passando da Grosseto, Siena, Firenze e Prato, sulle tracce del Sommo poeta. Eppure, in tempi di pandemia, nulla funziona meglio della scoperta di un’Italia poco frequentata. Con la sua laguna bipartita e il promontorio dell’Argentario, la magica Orbetello è sin troppo nota per essere descritta. Ricordo piuttosto le sue variegate vicende storiche che la videro prima affidata a Ordini religiosi, poi via via occupata da senesi, spagnoli, austriaci, annessa al Granducato di Toscana, poi al Regno di Sardegna, infine a quello d’Italia. La tradizione vuole che a fondarla fosse il comandante della cavalleria pontificia Pietro II Farnese. Quanto al nome “favoloso” di Orbetellum o Orbitellus, le versioni più accreditate lo fanno derivare dal diminutivo del latino herbetum (luogo erboso); forse ha a che fare anche con la giustapposizione dei termini orbis e tellum (cioè terra circondata dalle acque) – un toponimo davvero cosmologico, per un minuscolo centro abitato! L’ultima curiosità riguarda il generale e aviatore fascista Italo Balbo, che dal 1927 al 1933 scelse il luogo come base di partenza per le sue celeberrime spedizioni aeree.
Lasciata Orbis-Tellum puntiamo su Grosseto. Circumnavighiamo la cittadina, discreta, ordinata, elegante nella sua sobrietà, per costeggiare Civitella Marittima, a sinistra. Verrebbe da fermarci, ma ci attende qualcosa di meglio. Verde e magnifica, questa campagna fu interamente conquistata da Siena nella prima metà del Quattrocento. La città delle contrade, potentissima benché senza un fiume (basti pensare all’importanza dell’Arno per le antiche industrie tessili fiorentine), cercò uno sbocco al mare puntando proprio su Grosseto e Orbetello; tuttavia, l’espansione durò poco, e Siena dovette ritirarsi nei suoi vecchi confini, per poi finire annessa dall’odiata Firenze. Saltiamo la visita a questo centro strepitoso, che assorbirebbe da solo almeno una settimana, per uscire poco dopo, direzione Firenze, a Monteriggioni. Nell’Inferno, Dante ne parla in questi termini: “[…] in su la cerchia tonda / Monteriggion di torri si corona”. L’immagine introduce il paragone con una stirpe di “orribili giganti”, visto che tali sembrano le quindici torri che vegliano sulla cinta muraria. In origine, la fortezza era circondata da fossati, i quali, riempiti di carbone, venivano incendiati all’arrivo del nemico. Il tutto immerso in un paesaggio intatto che fa pensare, più che ad altre città italiane, a gioielli urbani quali Ávila in Spagna o Carcassonne in Francia. Tanto più stupefacente, nella sua quiete assoluta, appare l’interno: un miracolo di spontaneità architettonica dove, intorno a una piccola piazza, si dispone un reticolo di stradine. Diversi ristoranti invitano il turista, anche se, come talvolta accade in Toscana, l’eccesso di accoglienza produce il terribile “effetto San Marino”, una mercificazione del ricordo spinta al massimo grado. Ciò detto, pranzare o cenare nella piazzetta e passeggiare sulle mura restano due esperienze memorabili.
Poi si riparte, direzione Prato, verso paesi dai nomi curiosi come Limite, Confini e soprattutto Paperino, reso noto da un film del 1981 di Alessandro Benvenuti intitolato A ovest di Paperino. Più che Prato, però, il prossimo obiettivo del viaggio è il museo Luigi Pecci di arte contemporanea. Se ne parlo come fosse una meta diversa dalla città vera e propria è perché in effetti si tratta di una sorta di astronave caduta dall’alto e carica di tesori. Di particolare rilievo risultano le testimonianze sull’Arte Povera, la Transavanguardia e soprattutto la produzione di artisti dell’ex Urss. Dopo di che, con non poche sorprese, ci aspetta la vera e propria Prato. Quella che a molti ignoranti (a cominciare da me) sembrava un satellite di Firenze, si rivela in verità la seconda città della Toscana per numero di abitanti. Tutti conosciamo l’importanza della produzione tessile nell’economia pratese a partire dall’epoca medievale, con i documenti del mercante Francesco Datini considerato l’inventore, o comunque il massimo utilizzatore, dell’assegno e della lettera di cambio, nonché del sistema di aziende. Un altro boom giunse con l’Ottocento, quando Prato divenne uno dei distretti più importanti a livello europeo. Oggi si parla della sua vasta comunità cinese, ma la sera, per strada, colpisce la presenza di lavoratori provenienti dall’India o dal Bangladesh. Che cosa aspetta, invece, noi visitatori? Un gran lavoro, tra chiese ed edifici, molti dei quali decorati con marmi di due colori: il bianco della pietra alberese della Retaia e il verde serpentino del Monferrato. Ragion per cui vanno imparati subito termini come bicromia e romanico pisano-lucchese, lo stesso che, dalla Toscana, spazia fino in Sardegna, in Campania (Amalfi) e in Puglia. Avendo poco tempo, ci limiteremo a visitare un castello e due chiese. Voluto dall’imperatore Federico II, il bel forte quadrato con otto torri sorge nel centro della città, e d’estate viene impiegato come arena cinematografica: una pura meraviglia. Giusto di fronte, sorge la basilica di S. Maria delle Carceri, che Giuliano da Sangallo (su commissione di Lorenzo de’ Medici) realizzò a croce greca, ispirandosi alla Cappella Pazzi di Filippo Brunelleschi, a Firenze. Che equilibrio e nitore! All’interno si trovano decorazioni in maiolica di Andrea della Robbia e vetrate su disegno di Domenico Ghirlandaio. La nostra ultima visita riguarda però il Duomo, abbellito grazie a un gruppo di artisti chiamati dalla vicina Firenze. Mentre il pulpito esterno fu costruito da Michelozzo e decorato da Donatello, l’interno fu opera di Giovanni Pisano. Arrivati al transetto, poi, troviamo affreschi di Filippo Lippi e Paolo Uccello. Non proprio da città satellite.
E il giorno dopo, via, verso altri orizzonti, ma sempre sotto la protezione del padre Dante. Punto d’arrivo del viaggio è infatti uno spazio a metà tra la Devil’s Tower del film Incontri ravvicinati del terzo tipo di Steven Spielberg e la Hanging Rock di Peter Weir in Picnic a Hanging Rock. Parlo della cosiddetta Pietra di Bismantova, enorme massiccio roccioso a forma di nave che troneggia nell’Appennino reggiano accanto a Castelnovo ne’ Monti. Secondo alcuni commentatori, il poeta fiorentino l’avrebbe visitata nel 1306, traendone ispirazione per il Monte del Purgatorio. Il sito viene citato nel quarto canto accanto ad altre tre località impervie, cioè San Leo, castello presso Urbino, Noli, cittadina presso Savona, e Cacume, ripido monte vicino a Frosinone. Il passo recita: “Vassi in Sanlèo e discendesi in Noli, / montasi su Bismantova e ‘n cacume / con esso i piè; ma qui convien ch’om voli; / dico con l’ale snelle e con le piume / del gran disio, di retro a quel condotto / che speranza mi dava e facea lume”. L’etimo della località, incerto, è stato collegato al ruolo di montagna sacra che la Pietra avrebbe avuto nell’antichità. Allora ecco l’etrusco man (pietra scolpita) e tae (altare per sacrifici), oppure, venendo al celtico, vis (vischio), men (luna) e tua, “che rimanderebbe alla raccolta notturna di vischio tra i querceti della zona, espressione di un antico culto lunare”. Vismentua sarebbe così diventata prima Bismentua, poi Bismantua. Ma non è tutto, visto che Tito Livio, più prosaicamente, propende per la derivazione da suis e montium, ovverosia “montagna dei maiali al pascolo”... Come che sia, lo spazio è portentoso, un autentico paradiso dei free climber (“ma qui convien ch’om voli”) e, ancora una volta, del picnic. Ma qui siamo ben lontani dall’Australia di Peter Weir. Ragion per cui, sempre a proposito di cibo, non dobbiamo dimenticare di trovarci nelle terre del parmigiano reggiano. Ecco perché, senza neanche pensare a faticose passeggiate, noi preferiamo rimanere in basso, preparando un pranzetto al sacco sotto l’immensa alzata della roccia. Per ingannare il tempo, a ogni modo, progettiamo una tappa ideale, magari per la prossima occasione. Non lontano da qui sorge il castello di Canossa, dove nel 1077, durante la Lotta per le investiture, l’imperatore Enrico IV si umiliò davanti a papa Gregorio VII affinché venisse ritirata la scomunica. Per ben tre giorni, dal 25 al 27 gennaio 1077, il sovrano rimase in attesa inginocchiato nella neve, di fronte al castello. Da qui l’espressione nota in tutto il mondo “andare a Canossa”. Omaggiamo quindi il grande Gregorio VII, anche perché nativo di Soana, che si trova nei pressi proprio di quella Grosseto da cui siamo partiti per il nostro viaggio nell’Italia centrale sulle tracce di Dante.