di Barbara Gallucci | Foto di Stefania Galegati
Un progetto collettivo per preservare l’oasi al largo di Palermo
Atterrando all’aeroporto di Palermo si vede solo se ci si fa caso. Attira di più l’attenzione Punta Raisi, così vicina alla pista da costringere ogni passeggero a calcolare mentalmente la distanza che separa l’aereo da quella roccia incombente. Sbuca anche mentre si percorre la strada che porta in città, all’altezza di Capaci, ma anche qui, difficile non distrarsi passando accanto a quel monumento che ricorda una delle pagine più tristi della storia italiana. L’Isola delle Femmine è poco più di uno scoglio guardandola da lontano, eppure quei 15 ettari di roccia disabitata hanno attirato l’attenzione di persone molto diverse nel corso degli anni tra speculatori, affaristi senza scrupoli, palazzinari... «Per tutti loro c’è poco da fare. L’isola è Riserva naturale dal 1997 ed è stata affidata alla Lipu in qualità di ente gestore», conferma Vincenzo Di Dio, direttore della Riserva (lipu.it/riserva-naturale-isola-delle-femmine-pa). Eppure l’isola è anche una proprietà privata in vendita. «L’annuncio è online, sono partiti da tre milioni. È vedendo quell’assurdo annuncio che la mia socia Valentina Greco ha avuto l’idea di mettere insieme un gruppo di donne che potessero trasformare l’isola in un simbolo, in un amplificatore di un immaginario. In qualche modo in un’opera d’arte. Creare un’associazione e dare il via a una raccolta fondi per acquistarla è un primo passo», spiega Stefania Galegati, artista romagnola ormai palermitana d’adozione, insieme a un piccolo ma esplosivo gruppo di donne ha dato il via all’Associazione Femminote (isoladellefemmine.net) con questo scopo. «L’isola deve rimanere così com’è. Noi possiamo trarne ispirazione, fotografarla, raccontarla, ma siamo convinte che debba rimanere di tutti», prosegue. «La loro provocazione culturale mi è piaciuta. In un mondo dominato dagli interessi privati, un’iniziativa collettiva è notevole e si sposa con il concetto di sviluppo sostenibile della Riserva naturale», conferma Di Dio. «Abbiamo formazioni culturali diverse: noi scientifico-naturalistiche, loro artistiche; loro sono oniriche, noi indossiamo gli scarponcini, ma l’obiettivo è comune: preservare, condividere e far conoscere l’Isola delle Femmine». Farne un simbolo e un esempio.
Nella pratica questo significa che la Lipu propone passeggiate per scoprire i mille aspetti naturalistici, geologici, storici dell’isola. Sembra desolata ma è abitata da gechi e lucertole, aironi, garzette e gabbiani reali. Poi ci sono i lentischi e Vincenzo sogna anche di riportare qui altre piante. Dall’altra parte, l’Associazione Femminote sta cercando di venire a capo delle mille sfumature storiche, legali e burocratiche che questi 15 ettari concentrano. «Già capire da dove viene il nome pare un’impresa. C’è chi dice che fosse un’isola carcere per donne infedeli che vivevano nella torre di avvistamento del XVI secolo e della quale rimangono solo i resti. Altri sostengono che si chiamasse Insula Fimi, e Fimi era il nome arabo di Eufemio, un generale bizantino che favorì la conquista araba della Sicilia. Altri ancora pensano che venga dal latino fimis che a sua volta viene dall’arabo fim ovvero imboccatura. Si dice anche che i proprietari che l’hanno messa in vendita siano gli eredi di Rosolino Pilo», fa il punto Stefania. In ogni caso il sogno simbolico al limite dell’impossibile delle Femminote di lanciare un acquisto collettivo non è poi così fuori luogo. «Sembra assurdo, ma la soluzione dell’acquisto pubblico è la più ragionevole di tutte», conclude Vincenzo.