Idee. Le ragioni di una speranza

Per la nuova sezione Idee del mensile del Touring, un "contributo alla costruzione di una prospettiva" del filosofo Salvatore Veca, consigliere del Touring e presidente del Comitato scientifico del Tci

Inauguriamo una nuova sezione della rivista dedicata alla riflessione, al pensiero. L’abbiamo chiamata "Idee", nell’accezione di "contributo alla costruzione di una prospettiva", attraverso la quale il Touring Club Italiano vuole guardare al futuro, in un momento, per tutti noi, molto particolare. La prospettiva richiama immediatamente anche il modo con il quale intendiamo operare: costruirla insieme a chi condivide i nostri valori irrinunciabili, quindi non in modo ideologico, ma aperto a raccogliere contributi e disegnare in modo condiviso il futuro che l’associazione vuole perseguire. Salvatore Veca, consigliere Touring e presidente del Comitato scientifico (nella foto), al quale abbiamo affidato questa prima riflessione, in occasione dei 125 anni dell’associazione ha espresso una convinzione da noi profondamente condivisa: «il Touring Club Italiano si è assunto il ruolo di un partner civile e sociale nella governance del bene comune Italia. E questa è la migliore ragione per l’adesione e la partecipazione alla comunità associativa che si prende cura dell'Italia, ragione che vale in primo luogo per le ragazze e i ragazzi che sono le parti rappresentative del futuro e del nostro possibile domani». è soprattutto a loro che dedichiamo questo spazio nella convinzione che la sostenibilità (uno dei nostri valori irrinunciabili) e la responsabilità (una pratica che da sempre qualifica le nostre decisioni) sono congeniti presupposti del nostro modo di essere e di agire, in un orizzonte temporale che deve necessariamente includere le generazioni future.

Franco Iseppi

Le ragioni di una speranza, di Salvatore Veca

Il Touring si prende cura dell’Italia, bene comune. Lo sappiamo: questa formulazione è il nostro motto e, al tempo stesso, definisce i tratti distintivi del nostro impegno come Associazione. I tratti distintivi sono quelli della lealtà e della coerenza con il nostro dna nella durata. I velocipedisti, i nostri padri fondatori, hanno indicato la direzione di marcia ben più di un secolo fa e hanno fissato così il nostro terminus a quo. Un’associazione che, come il Touring, ha conosciuto nel tempo il mutamento, a volte lento e tacito a volte drastico e radicale, dei contesti politici, delle aspettative sociali, degli orientamenti culturali, delle strutture economiche, degli atteggiamenti etici, ha saputo nelle traversie tener fermo il riferimento al suo terminus a quo, alla sua tavola di valori, ma naturalmente non ha mai potuto disporre di un tranquillo terminus ad quem che coincidesse con l’ultima parola in proposito. Noi cooperiamo insieme, consapevoli che il nostro contrassegno è la penultima parola, semplicemente perché continuiamo con tenacia ed entusiasmo nella nostra impresa associativa nel mutare delle circostanze contingenti e nel cambiamento storico, che genera incessantemente sfide e opportunità. O meglio, sfide da fronteggiare e superare, snidando con discernimento le opportunità latenti.

Nell’anno 2020 della grande e terribile pandemia globale di Covid-19, in cui siamo ancora intrappolati, la necessità pratica ci ha indotti a convertirla in virtù e, in modo alla fine non così sorprendente, ha fatto sì che i nostri valori di turismo etico, responsabile e sostenibile divenissero una guida efficace all’azione hic et nunc, qui e ora. Abbiamo sostenuto con forza, in questo difficile contesto, le virtù di un turismo di prossimità, di uno slow tourism. E abbiamo messo a fuoco, nelle specifiche circostanze, il valore distintivo dei nostri territori, delle loro identità collettive, delle buone pratiche dell’ospitalità e dell’accoglienza, della loro vivida, umile e persistente bellezza. È naturale pensare, a questo punto, ai nostri borghi Bandiera Arancione, che possono riassumere in fondo e alla grande il catalogo dei temi e delle virtù che ho sommariamente redatto. Ma vorrei suggerirvi, in proposito, una breve riflessione sul valore della bellezza, l’ultima delle virtù del mio approssimativo catalogo.

Non so a voi, ma a me è accaduto più volte – ai tempi dei confinamenti, delle clausure e dei lockdown – di imbattermi alla televisione, fra un notiziario sull’andamento del contagio e l’altro, nelle immagini dei mille borghi disseminati negli Appennini. Erano riprese di una manciata di minuti o, a volte, di secondi. Ma quello che colpiva era l’epifania della bellezza. Essa sospendeva il ritmo dell’ansia e dell’angoscia, della paura o dell’incertezza di noi “reclusi”. La bellezza come congruenza e, soprattutto, giustezza nell’equilibrio guadagnato nel tempo fra la cultura e la natura, fra il progetto del costruito e il contesto naturale, fra le forme degli artefatti e le funzioni degli stessi nella vita individuale e collettiva, correlate alla soddisfazione dei bisogni. Sarà forse effetto della prolungata “clausura” di un vecchio professore come me, ma mi è accaduto spesso di pensare, di fronte alla visione di un borgo e dei suoi artefatti su un rilievo o in una valle, alla leggendaria risposta di Mozart all’obiezione dell’imperatore che sosteneva che forse c’era qualche nota di troppo da sfoltire nell’opera musicale: «Maestà, qui ci sono solo le note che devono esserci; non una di più, non una di meno!».

Nella leggendaria risposta di Mozart c’è un elogio della giustezza che chiama in causa l’appropriatezza nel rapporto fra le diverse componenti e l’insieme. Nel nostro caso, fra l’artefatto e il contesto naturale. L’ubicazione delle case e dei differenti edifici, della chiesa e del campanile, della piccola piazza, delle stalle e dei fienili rivela una sorta di sapienza antica del costruire. Del disegnare confini, del rendere gli artefatti il più possibile compatibili con i contesti naturali, del coerentizzare i luoghi e i modi dell’abitare umano con il respiro della natura, con la lezione del bosco, con l’equilibrio e il ritmo delle colture nei campi, con le voci del vento e la partitura che modula lo scorrere delle acque. Non vorrei ora cedere alla inevitabile tentazione della musealizzazione o della idealizzazione romantica di un passato che ci parla solo di bellezza e congruenza. Tutti conosciamo i molti volti del passato, di cui possono parlarci oggi alcuni fra i suoi esiti, le strade strette, le piccole case, le pietre, la fontana, la piazza, la chiesa, la cappella votiva, il confine sfumato con le siepi e gli alberi e la roccia, il bosco e la montagna. Senza alcuna manovra da cartolina romantica, è tuttavia indubbio che la nostra esperienza di animali urbani o metropolitani che si addentrano nella visita del borgo sconosciuto sia molto simile a un’esperienza di scoperta. (Anche il turismo di prossimità è intrinsecamente un turismo esperienziale.) Ma, come ci ha detto Marcel Proust, è anche un fatto che «il vero viaggio di scoperta non consiste nel cercare nuove terre, ma nell’avere nuovi occhi». Certo, noi possiamo guardare terre sconosciute con occhi vecchi o con gli occhiali della mente ereditati. Il nostro sguardo, dopo tutto, non è mai innocente. È carico di memorie, di visioni, di figure, di voci e di suoni e dell’eco di ciò che è stato veduto, udito e sentito nel tempo di vita. Il nuovo emerge dalla particolare intenzionalità dello sguardo.

Quando si sospende l’abitualità ordinaria delle nostre vite, quando si avverte il bisogno di qualcosa di inedito che interrompa i nostri percorsi obbligati sulle scale mobili dei giorni che seguono i giorni, quando si sente come un peso il ripetersi, per altri versi rassicurante, del tran tran quotidiano. Allora il viaggio con occhi nuovi diventa un genuino desiderio. In fondo, questo è alla radice della voglia di viaggio per tipi come noi. E se ci pensate su, alla grande o terra terra, il desiderio è desiderio di confronto con l’alterità o con una qualche forma di diversità. Oggi, nella morsa della pandemia, possiamo provare questo desiderio nella sua forma più pura, nella sua forma incondizionata o categorica. Ho spesso lavorato, nelle mie ricerche filosofiche (che, in fondo, sono anche loro uno strano tipo di viaggio nei territori delle idee), sulla differenza fra desideri categorici e desideri condizionati. Un desiderio categorico è il desiderio che puoi provare nella tua vita, che è indipendente dal fatto che continui a vivere: ho bisogno di vivere per raggiungere questo scopo. Il desiderio condizionato è invece quello che puoi provare semplicemente perché continui a vivere. Provate a sottoporre al test filosofico, evitando il mal di testa, la natura del vostro desiderio di viaggio. Il vostro vi sembra un desiderio categorico o è proprio un desiderio condizionato? è un desiderio di qualcosa che vale di per sé o il desiderio di qualcosa che vi serve ad ammazzare il tempo? (Nei giorni del lockdown da pandemia esercitarsi con i quiz filosofici può essere un modo interessante di passare il tempo; un po’ come si fa con i cruciverba.)

C’è un’altra lista di domande che vi suggerisco per fare un po’ di ginnastica mentale in clausura. Per esempio: dove è l’alterità? A quali siderali distanze si trova alla fine la diversità? Alterità e diversità sono inevitabilmente situate in terre nuove e lontane? Ricordiamoci della massima di Proust e chiediamoci se alterità e diversità non potrebbero forse essere ovunque. Ovunque possa indirizzarsi il nostro sguardo nuovo. Ovunque si possa fare esperienza viva della prossimità e della distanza delle cose d’ogni giorno. Come suggeriva il grande filosofo Ludwig Wittgenstein, «guarda! Non pensare». Guarda con occhi nuovi, ci ha detto l’autore della Recherche. Ecco: il turismo di prossimità è l’esemplificazione più felice del desiderio categorico di esperienza di alterità e di diversità. Torniamo ai nostri territori e ai nostri borghi. E riflettiamo sull’effetto turismo; o, meglio, sulla pluralità di effetti di un turismo etico e sostenibile sulla loro variegata realtà. Molti borghi, lo sappiamo, sono spopolati. Alcuni sono da tempo abbandonati. Il loro tasso di resilienza decresce continuamente. Può darsi il caso che in qualche borgo, per singolari vicende, viva ancora e persista una qualche attività, per lo più legata alla tradizione gastronomica o enogastronomica. Ora, un turismo etico e sostenibile può essere il più prezioso contributo alla rigenerazione di queste realtà. Una rigenerazione che investe più dimensioni e che ha molti volti. Ha una dimensione civile ed economica, una dimensione sociale e culturale.

I borghi possono tornare, in tempi drasticamente mutati, comunità. Comunità in cui i valori dell’ospitalità e dell’accoglienza sono coltivati per rispondere alla domanda e, soprattutto, al desiderio di viaggio di cui abbiamo parlato. Mi sia consentito sottolineare in proposito che ospitalità e accoglienza sono le virtù dell’inclusione e dell’apertura, che possono essere esercitate grazie a una distinta identità collettiva che si corrobora nel tempo. L’identità, in circostanze come queste, si avvale della risorsa scarsa della gentilezza. (In altre e più severe circostanze, qua e là per il mondo, l’identità claustrofiliaca si nutre della crescente barbarie e della crudeltà nei confronti dell’alterità e della diversità.) In questo anno ormai terminato, il 2020 segnato dallo tsunami della pandemia, siamo tutte e tutti chiamati a cooperare alla grande rigenerazione nella gentilezza dei nostri modi di convivenza, dei nostri rapporti con la natura, dei nostri modelli di vita buona. Quando usciremo dal tunnel del Covid-19, avremo bisogno di quello sguardo nuovo su noi e sul mondo. Avremo bisogno di poter coniugare in modo solidale e fraterno, come ci ha suggerito Papa Francesco, i termini di umanità e pianeta. Sarà difficile, sarà arduo quanto volete, ma il compito di darsi una mano per rendere «più abitabile questa ‘aiuola’», come ci aveva suggerito Norberto Bobbio nel suo celebre Elogio della mitezza, è un compito ineludibile.

Noi del Touring non ci tireremo certo indietro rispetto al compito ineludibile. Consapevoli delle radici etiche del turismo e della natura del desiderio di viaggio, saremo leali ai nostri valori e faremo maturare i frutti e le opportunità di una cultura del viaggio che abbiamo sostenuto e approfondito in tempi di avverse traversie. Per concludere, sarà bello poter dire insieme: e malo bonum. E offrire così ragioni a una comune speranza.