Sull'isola delle monete di pietra

I Ra’ay di yap, in Micronesia, possono pesare anche tonnellate e hanno pieno valore legale

Una trentina di anni fa, in fondo alla pista dell’aeroporto dell’isola di Yap, uno dei quattro Stati della Federazione della Micronesia (Oceano Pacifico), c’erano due grandi ciambelle di pietra. Davano il benvenuto ai turisti avvisandoli che erano arrivati nell’isola delle monete (Ra’ay) più pesanti del mondo. In realtà ce ne sono di diversi diametri, da qualche centimetro a oltre tre metri e mezzo. Le più grandi possono arrivare a pesare anche otto tonnellate, e di certo quelle all’aeroporto sono ancora al loro posto, anche perché raramente vengono spostate dal luogo in cui si trovano da secoli.

Gli abitanti di Yap le hanno prodotte per 1500 anni, e sono ancora in corso legale, ma passano di mano solo per transazioni di particolare rilievo o per riparare a un grave delitto. Anche nel caso che cambino di proprietà, solitamente rimangono dove sono, come un bene immobile. Cambia solo il nome del proprietario, che di fatto acquisisce il valore simbolico del Ra’ay in questione. Per i piccoli acquisti quotidiani nei supermarket dell’isola, gli yapesi utilizzano invece dollari americani, grazie a un accordo di libera associazione con gli Stati Uniti. Secondo la tradizione, la storia delle monete di pietra cominciò 1500 anni fa quando un navigatore yapese perse la rotta e si trovò su un’isola sconosciuta e disabitata, poi battezzata Palau, oltre 400 chilometri a sudovest di Yap, con scogliere coralline bianche e brillanti. Affascinato da quella pietra, decise di scolpire una grande ciambella, quindi riprese il viaggio e tornò a casa, dove la bella pietra conquistò gli yapesi. Da allora i notabili dell’isola iniziarono a organizzare spedizioni con sempre più canoe e centinaia di uomini per staccare dalle bianche scogliere lastre di calcite per realizzare Ra’ay, spesso battezzati col nome del promotore dell’impresa e poi posizionati in bella vista davanti alla sua capanna come oggetti carichi di un valore profondo, ma invisibile, che noi occidentali abbiamo prosaicamente chiamato stone money, monete di pietra. Il valore di ciascun Ra’ay dipendeva naturalmente dalla dimensione, ma era l’intera comunità dell’isola a stabilirlo anche sulla base delle difficoltà affrontate dal promotore dell’impresa e dall’eventuale perdita di vite umane durante la traversata.

Il complesso equilibrio delle stone money di Yap fu alterato dall’arrivo di un commerciante americano, David O’Keefe che, procuratosi un’imbarcazione a motore si propose come trasportatore di Ra’ay in cambio di carichi di copra (polpa di noce di cocco) e di oloturie (i cosiddetti cetrioli di mare), che smerciava con profitto nei mercati asiatici. Gli isolani accettarono la proposta, e rapidamente Yap fu invasa da monete scavate e scolpite con strumenti di ferro e poi trasportate senza fatica con barche a motore. Ra’ay che oggi gli isolani ritengono «degradati». Mentre prima dell’arrivo di O’Keefe le monete di pietra erano una rarità, una trentina di anni dopo se ne contavano più di 13 mila. Una quantità spropositata che innescò una brusca svalutazione delle monete realizzate senza troppa fatica, cioè prive del prezioso surplus etico. Oggi si stima che nell’arcipelago vi siano ancora circa settemila stone money sottomesse alle esigenze del mercato turistico. Una arrivò qualche anno fa sui banchi di un mercatino milanese, ma sembrava decisamente «degradata».

Foto di Viviano Domenici