di Paolo Simoncelli | Fotografie di Paolo Simoncelli
All’interno e sulla costa ionica della Locride, per scoprire (oltre alle tracce di Corrado Alvaro e Cesare Pavese) piccole comunità, siti greci e castelli armeni, antichi monasteri e moderni eremiti, testimonianze viventi di riti e tradizioni del passato
Il libro di Vito Teti va sfogliato come si centellina un buon vino. Arriva quasi a 600 pagine. Per forza, Il senso dei luoghi racconta le storie dei paesi abbandonati, la memoria tra le pieghe calabre. Luoghi di solitudine tra concerti di cicale. Prima o poi, andando a zonzo per la Locride, quando gli insetti tacciono, si alzerà la voce di Cesare Pavese, confinato a Brancaleone Marina nel 1935. Affittò una stanza in corso Umberto I, semivuota, triste. Un letto e una scrivania che dava le spalle alla porta. Non voleva vedere il mare che ringhiava lì vicino, oltre la ferrovia, oltre i gelsomini.
Lo scrittore aveva il permesso del maresciallo e così giocava a carte coi locali al bar Roma. Dava lezioni di latino e greco a un ripetente. Per il resto fumava la pipa. E s’incupiva: i suoi due passatempi preferiti. Però visitò i meravigliosi ruderi di Brancaleone Vetus, dove aleggia la leggenda di una processione di defunti. è qui, dove i monaci orientali incisero in una chiesa-grotta la croce col pavone, “marchio” della fede armena, che Pavese si struggeva: «Come sarebbe bello raccontare un Dio incarnato in questo luogo!»
Brancaleone non è lontana da Bruzzano Vecchio, altro vetusto insediamento tra ulivi secolari. L’hanno fondato proprio gli Armeni, nel IX secolo: monconi di case tra porta Carafa e il millenario castello sulla roccia. Adesso le cicale non cantano. E così, tra i ruderi, arriva la “voce” dello scrittore. Sembra fatta apposta per la Locride, dove i borghi, come nei miraggi, si sdoppiano: uno alla marina e uno sui monti. Un paese vuol dire non essere soli; sapere che nella gente, nelle piante, nella terra, c’è qualcosa di tuo. Che anche quando non ci sei resta ad aspettarti. Del resto miseria, emigrazione e terremoti flagellano da sempre quest’angolo di mondo. Per fortuna, ogni tanto arriva il vento. Smuove tegole rotte, persiane sgangherate. È la pendola dei paesi fantasma. Sennò, chi si accorgerebbe che il tempo passa?
Al mio arrivo a Ferruzzano, ipnotico alveare di case spolpate dal terremoto del 1907, costruite su rocce d’arenaria al solo scopo di vederle bruciare di rosso al tramonto, c’era una cosa in più: un cartello con la scritta vendesi su un edificio morente. Il telefono ha il prefisso dell’Australia: un ferruzzanese partito, come tutti, in cerca di fortuna.
E’ proprio qui sotto che brulica il bosco di Rùdina, intatto reperto di macchia mediterranea. Ci vivono il gufo reale e l’ulolone dal ventre giallo. All’ombra delle querce invece si nascondono millenari palmenti intagliati nell’arenaria, con la doppia vasca separata da un foro. Nella prima, il buttìscu, si pigiava l’uva; nella seconda, il pinàci, scendeva il mosto. Sono più di settecento nel territorio, d’epoca ellenica e romana, a volte con le croci, a segnalare l’appartenenza alla chiesa bizantina o latina. «Un tempo», spiega il professor Orlando Sculli, l’Indiana Jones locale che ne ha censiti 157, «le coste della Calabria erano un viavai di barconi carichi di anfore vinarie». Il professore è anche un cultore di biodiversità. Nel suo terreno ha introdotto rare piante e antichissimi vigneti autoctoni. Mi ha mostrato la melanzana rossa di Mormanno, il melo di Caulonia alto 90 centimetri, la rosa damascena di Ferruzzano, la menta al bergamotto, l’ulivo Gonzales. E mentre mostrava, raccontava. Ad esempio, che per scovare piante destinate all’estinzione ha distrutto una Punto e due Panda. Per forza, ha percorso 45mila chilometri seminando marmitte e sospensioni per gli sterrati di tutta la provincia.
Poco distante, Villa Zephyros, la casa dell’artista Domenico Carteri, è un’irreale apparizione lungo la statale a ridosso dello Jonio. Qualcosa a metà tra l’otium di un imperatore romano e un vascello felliniano pronto a prendere il mare. Migliaia di pietre colorate, luccicanti, avvolgono mura, pavimenti, pergolati, cortili e l’immensa balconata. Un lavoro di trent’anni. «Andrò avanti fino a quando ci sarà un centimetro libero», dice Mimmo, scultore-mosaicista tanto umile quanto bravo. I meravigliosi mosaici, fiori, alberi da frutta, galli, pavoni, riprendono i motivi assorbiti quando lavorava agli scavi di Pompei. Qui vicino c’è anche il “muro della speranza”. Sotto la sua guida, decine di mani lo stanno tappezzando di colori. Serve a socializzare ed è appunto un segno di speranza: Ferruzzano è in bilico sulla minacciosa faglia che ogni tanto si risveglia.
Il vicino monolite di Pietra Cappa, fra i più grandi d’Europa, svetta su un mondo primordiale di montagne e fitti boschi. è la Valle delle Grandi Pietre, atavica terra di asceti vicino a Platì. Non avrei battuto ciglio se vi avessi incontrato un brachiosauro. Il sentiero è ben tracciato ma la guida Bruno Trimboli rende l’escursione indimenticabile.
Anche la terra di Corrado Alvaro è a due passi: la sua casa-museo sta nel cuore di San Luca. Ospita vecchie edizioni dei suoi libri e diversi cimeli: un autoritratto a schizzo, la valigia, la macchina da scrivere, il letto, gli abiti. «Era chiuso e taciturno», mi ha spiegato Sebastiano Romeo, segretario della Fondazione Alvaro, e un fustigatore di costumi. «Prima di guardare un politico nella testa», diceva, «giudicalo dalle tasche».
Poco più a nord, Gerace è la città delle cento chiese, col castello normanno a nido d’aquila e la millenaria cattedrale. Oggi qui sventola la Bandiera Arancione Tci. Un tempo era la capitale degli argagnari, i vasai. Ce n’erano molti quando, era l’agosto 1847, arrivò Edward Lear, l’illustratore e scrittore inglese autore del Diario di un viaggio a piedi. Entrò a cavallo insieme alla guida Oreste Casciano detto Ciccio, un omone che masticava l’inglese come il demonio bazzica l’acqua santa. Rispondeva sempre con una formula magica, Dighidoghidà. Di più non sapeva dire. E così Lear lo chiamò Dighidoghidà. Ammaliati da Gerace, i due girarono tra palazzi, stradine e portali in pietra, passando sotto gli archi a giustini di calce e canne. Fuori dal centro, presso la chiesa di S. Maria di Monserrato, oggi vive il proprio eremitaggio suor Mirella, ieratica figura col velo nero da monaca orientale. Mentre dipingeva un’icona mi ha raccontato la storia della sua conversione, del suo passato da ricercatrice alla Sorbona e del ritorno alle radici, al monachesimo italo-greco della sua Calabria. Ecco perché ha battezzato il luogo Eremo dell’Unità. «È un ponte tra Cristianesimo d’Oriente e d’Occidente», mi ha detto. E infatti Mirella prega otto volte al giorno, secondo l’ufficio bizantino. Per il resto ascolta la radio. E dà uno sguardo alla posta elettronica. Unica mondanità, il pesce del martedì. Glielo porta Antonio, in Apecar, dal mercato ittico di Roccella Ionica.
Più a nord ancora, nell’entroterra di Caulonia, dove vanno in scena originalissimi riti della Settimana Santa, si trova il Monastero di S. Ilarione, dal IV secolo in un selvaggio canyon lungo la fiumara dell’Allaro. È qui, da 15 anni, che vive in solitudine l’eremita francese Frédéric Vermorel. Al mio arrivo, alle 12.30, era come tutti i giorni nella chiesetta, a recitare salmi col sottofondo della cetra. Mi ha mostrato il monastero, interdetto ai visitatori, con le spartane celle. Mi ha anche offerto un’ottima pasta al pomodoro. «Chi vuole vivere periodi di ricerca interiore è sempre benvenuto. Può restare qualche ora, un giorno, il tempo che vorrà. Chi può lascia qualcosa. Chi non può, non lascia nulla». Com’è la vita qui? Frédéric prega cinque volte al giorno, tra le 6 del mattino e le 9 di sera. Coltiva melanzane, pomodori e peperoni nell’orto. Ogni tanto va a fare compere in paese. Poi, di sera, contempla le stelle. Così fitte e luminose non se ne vedono nemmeno nel Sahara.