di Barbara Gallucci | Foto di Alberto Lagomaggiore
La originale storia di due appassionati e collezionisti d’arte che a Milano hanno trasformato una palazzina dell’architetto Portaluppi in uno straordinario cenacolo del Novecento: Casa Boschi Di Stefano
«Ho nella mente questo incessante martellare. Per lo zio, collocare un nuovo quadro, significava modificare il puzzle di un’intera parete, guadagnando centimetri, cornice contro cornice, per intere notti». Lo zio martellante è Antonio Boschi, il nipote un Alessandro Mendini bambino. L’ingegner Boschi e il futuro architetto, designer e artista Mendini vivevano sotto lo stesso tetto. Il primo aveva sposato la zia del secondo e tutti abitavano in una palazzina disegnata per una famiglia numerosa e rumorosa in via Jan, quella che un tempo era la periferia di Milano e ora è alle spalle del ben più rumoroso corso Buenos Aires. Autore del progetto Piero Portaluppi, amico di Francesco Di Stefano, suocero di Boschi, che gli aveva commissionato l’edificio proprio con l’intento di farci vivere figli e nipoti. Il martellare proveniva dal terzo piano, agli inizi, poi dal secondo dove Antonio Boschi risiedeva con la moglie Marieda Di Stefano, la vera responsabile di tanta complessità nell’allestimento. Già perché era stata proprio Marieda a spalancare le porte del mondo del collezionismo d’arte all’ingegnere. Cresciuta in un ambiente particolarmente interessato a quadri, dipinti e sculture, lo aveva letteralmente contagiato. Quando nel 1931 si trasferirono nella palazzina di via Jan erano sposati da poco, ma già andavano d’amore e d’accordo, anche sulle scelte artistiche.
«Oggi sono esposte circa 300 opere delle oltre duemila raccolte da Antonio e Marieda tra gli anni Venti e gli anni Sessanta del secolo scorso. Sarebbe stato impossibile aprire la casa come museo nelle stesse condizioni di vita dei due coniugi», racconta Maria Fratelli, direttrice della Casa Museo Boschi Di Stefano. «La gran parte delle opere era ordinata in più file appoggiate a terra lungo le pareti, fino a occupare il pavimento delle stanze, altre erano appese sugli infissi delle porte», prosegue. E dire che, ancora adesso, varcando la soglia d’ingresso di quell’appartamento, la sensazione è proprio di essere travolti dalle opere. La Casa Museo, aperta anche grazie alla presenza dei soci volontari del Touring Club Italiano, è un turbinio di colori, forme, oggetti e sculture. Tutto è stato sistemato in un ordine più museale, ma rimangono l’originalità e unicità del contesto. Ma chi erano Marieda e Antonio? Guardando il ritratto della coppia appeso all’ingresso, realizzato da Remo Brindisi nel 1951, si possono intuire alcune caratteristiche dei due. Erano eleganti, ma senza ostentazioni, appassionati di gatti (ne giravano parecchi per casa) e conoscevano il panorama artistico italiano loro contemporaneo. Altre informazioni si scoprono leggendo le loro biografie. Marieda Di Stefano era nata nel 1901 a Milano. Il padre Francesco, imprenditore edile, è un appassionato d’arte italiana degli inizi del Novecento (collezione in parte presente nell’attuale allestimento), interesse trasmesso in famiglia e amplificato da Marieda della quale supporta anche il talento da ceramista e scultrice facendola studiare con lo scultore Luigi Amigoni. Diverso il percorso di Antonio Boschi, classe 1896, novarese, dirigibilista durante la prima guerra mondiale, ingegnere prima nel ramo ferroviario poi alla Pirelli, violinista per diletto. I due si incontrano durante una vacanza in Val Sesia e, da quel momento, diventano pressoché inseparabili.
È ancora nelle parole di Alessandro Mendini, scomparso nel 2019, che emergono i tratti degli zii: «Marieda era estroversa, bella, generosa, mondana, elegante e creativa, era la perfetta seduttrice dei pittori più difficili. Antonio faceva ogni sacrificio pur di frequentare le gallerie di Milano e portarsi a casa un piccolo Carrà o una statuina di Arturo Martini». Complicità e curiosità spingevano la giovane coppia a investire su artisti emergenti, su talenti italiani che invitavano nel loro salotto, di cui diventavano amici e che supportavano acquistandone le opere. Con il trascorrere degli anni, i successi professionali di Antonio (decine i brevetti per Pirelli che portano la sua firma), garantiscono ai due la possibilità di investire e comprare. Comprare tantissimo senza mai vendere un’opera. Per loro non si trattava di investimenti ma di scelte dettate dalla passione e non si sarebbero separati da nessuna tra loro (da lì la necessità di martellare i muri). Tra i rapporti amicali più duraturi quello con Mario Sironi (una trentina le sue opere esposte tutt’ora nella casa) e con Lucio Fontana del quale è esposta una spettacolare antologia di Concetto Spaziale. Il rapporto diretto con gli artisti e i galleristi italiani ha contribuito a costruire la collezione della casa, ma per un’opera in particolare i coniugi Boschi Di Stefano fecero un’eccezione: La scuola dei gladiatori di Giorgio de Chirico. Realizzata a Parigi su commissione del collezionista e gallerista Léonce Rosenberg, la tela fu acquistata dai due milanesi dieci anni dopo durante un viaggio a Parigi e portata a casa arrotolata e messa sotto i sedili del treno. Seppur imponente, il quadro avrebbe perso la sua monumentalità per farsi spazio tra decine di altre opere, di artisti più o meno importanti e più o meno quotati. Marieda e Antonio non facevano graduatorie, sceglievano solo quello che più li interessava. Come nella scelta dei viaggi da fare, si lasciavano ispirare dalla curiosità: da Bruxelles alla Scozia, dal Giappone alle isole Lofoten fino alle Svalbard, dove andarono suggestionati dalle avventure del dirigibile Italia. Nelle foto private conservate all’archivio del Castello Sforzesco si vedono i due esplorare con gioia il mondo per il puro piacere di farlo. La stessa gioia si ritrova nelle immagini delle vacanze di famiglia, quando la tribù di via Jan emigrava al mare in massa per godere di qualche giorno di sole. Niente di più lontano dallo stereotipo del collezionista freddo, calcolatore e anche un po’ snob, alla Léonce Rosenberg insomma.
Un’ulteriore prova dell’apertura al mondo della coppia l’inaugurazione, alla fine degli anni Cinquanta, della scuola di ceramica di Marieda al piano terra della palazzina. Se al piano di sopra alla quotidianità caotica delle 11 stanze è stato dato ora un ordine, in questi spazi si è per scelta lasciato il senso di uno studio d’artista, con pennelli, ciotole e materiali sparsi ovunque. Un biglietto ricorda di pulire i materiali dopo l’utilizzo, i lavori semplici degli allievi sono lasciati a seccare come se fossero stati realizzati il giorno prima, gli inviti di mostre ed eventi sono attaccati ai muri a imperitura memoria. Memoria di un duo dinamico ed empatico, generoso e riconoscente della propria fortuna culturale ed economica. Dopo la scomparsa di Marieda nel 1968, Antonio donò la collezione, nel 1974, al Comune di Milano. Una seconda donazione fu garantita alla sua morte, nel 1988, nella speranza che la città si dotasse di un museo del Novecento (inaugurato solo nel 2010, oggi ospita molte delle opere appartenute ad Antonio e Marieda). Nelle sue ultime volontà Boschi chiedeva inoltre di ricollocare una parte della collezione in quella casa, richiesta attuata solo anni dopo con la nascita della Fondazione Boschi Di Stefano e con il restauro della casa nonché con l’acquisto di arredi che fossero coerenti con lo stile dell’edificio e con le diverse epoche degli artisti collezionati ed esposti: dalla sala da pranzo disegnata da Mario Sironi al lampadario Agena della collezione Galassia ideato proprio dal nipote Mendini di cui nel palazzo ci sono altre tracce come la cassetta delle lettere e una consolle al secondo piano (nonché una poltrona Proust all’ingresso). Le martellate sono state sostituite dai passi leggeri dei visitatori sul parquet scricchiolante. Il silenzio è da museo. Un museo dove si fa particolarmente alla svelta a sentirsi come a casa.