di Giuseppe Scaraffia
Il deludente viaggio nella capitale di Rainer Maria Rilke nei primi anni del Novecento
Un alone di mistero circondava il padrone di Villa Strohl-Fern, un anziano signore interamente vestito di nero, la lunga barba bianca ombreggiata dal largo cappello nero e gli occhi grigi, sempre scortato da due “tremendi” cani lupo. Si sapeva che era un nobile alsaziano, in esilio volontario dopo la guerra franco-tedesca. Strohl era il suo nome, ma Fern cosa significava? Lontano o libero? Lontano perché libero o libero perché lontano dalla patria e dalla ricca famiglia? Quel mecenate aveva fatto costruire la villa nel 1879 in un grande parco in cui aveva sparso una serie di piccole costruzioni, studi per gli artisti. Presto quei rifugi avevano ospitato creatori di varie nazioni, tra cui, nei primi anni del 1900, il poeta Rainer Maria Rilke.
Non ancora trentenne, Rilke era venuto a Roma con la moglie Clara Westhoff, allieva di Rodin, da cui aveva avuto una bambina. Il 10 settembre 1903 Rilke giunse a Roma, dove rimase per 9 mesi, fino al giugno 1904. Nei primi tempi la città era ancora «vuota, bruciata, febbricitante» e pesava sulle infinite difficoltà pratiche il senso di tristezza «per l’aria morta e torbida da museo che respira». I due inizialmente avevano abitato in via del Campidoglio 5, «nell’ultima casa con terrazza che dà sul Foro Romano», poi si erano separati. Lui aveva preferito, nell’assorta solitudine di Villa Strohl-Fern, «una casetta, l’ultima e più appartata del grande giardino inselvatichito», un’eccentrica costruzione rossa cresciuta su una specie di ponte in un bosco di lecci. «Una vecchia terrazza spersa nel profondo di un grande parco, celata alla città, al frastuono, al caso. Abiterò lì tutto l’inverno e godrò della grande quiete, da cui mi aspetto il dono di buone e ricche ore», diceva. «Per la primissima volta dopo tanto tempo», aveva ritrovato una calma venata di gioia. Lì lavorava faticosamente pensando all’amata, l’irresistibile Lou von Salome, di quattordici anni maggiore di lui, un tempo vanamente corteggiata da Nietzsche.
«Ti ricordi ancora di Roma, cara Lou? Com’è nella tua memoria?», le scriveva. A volte la pioggia sembrava non dovere mai finire, a volte era tormentato dai mal di testa e di denti. «Le notti sono ancora un po’ fresche e la loro voce è l’ininterrotto gracidio delle rane». Poi invece si era affacciata la primavera «e per la primissima volta mi sento un po’ libero, e felice, come se tu potessi entrare da me all’improvviso». Roma l’aveva colpito meno di Parigi; poco impressionato dal barocco, Rilke preferiva concentrarsi sulle antichità, sulle fontane e sugli acquedotti. La città moderna gli sembrava troppo lontana dalle vestigia dell’antichità. Lo deludeva «la vita fittizia di questo immortale passato», la sua essenza di inconsapevole museo. La pompa dominava i festeggiamenti religiosi, mentre per strada soffriva vedendo i carrettieri frustare i magri cavalli. Eppure, molti anni dopo, «il desiderio di rivedere Roma era diventato tanto grande da essere quasi insopportabile».