Controcanto. Il neolitico salentino

Il Dolmen Li Scusi a Minervino, Lecce, «il più bello e conservato della Terra d'Otranto», scrive la Guida Rossa Tci Puglia

«Come ci avvicinammo all’Adriatico il paesaggio divenne monotono e triste per la grande quantità di muriccioli di pietra»
Henry Swinburne, Travel in the Two Sicilies, Londra 1783

Fuori dalla Chiesa Madre di S. Michele Arcangelo, a Minervino di Lecce, i volontari raccolgono le offerte per le feste patronali. Più in là, appoggiati al muro d’angolo della piazza, i manifesti le annunciano, nel giallo e rosso del Salento, immutati negli anni, come fossero annunci di corride.
Al fianco, le piccole case imbiancate e i pochi palazzi nella pietra ambrata del carparo, ingentiliti dai riccioli del barocco salentino. Le strade vuote, i caffè con le sedie all’esterno, la tenda di perline colorate, la chiesa di S. Antonio e il convento, gli archi festosi sovrapposti alla facciata, candidi nel giorno e rutilanti di colore la notte, sono il fondo di proscenio della Puglia di trent’anni fa. Fotografia ingiallita dal colore della terra e dal sole.
All’uscita del paese, i cartelli marroni dei diversi Parchi culturali del neolitico salentino indicano dolmen, menhir e megaliti che si confondono negli uliveti, con i muretti a secco di calcare bianco, più o meno frequenti in ragione della petrosità dei campi, quasi un labirinto. La Guida Rossa Tci Puglia non può sbagliare e sicuramente il dolmen si trova lì, forse vicino, forse lontano dal percorso dei cartelli del Parco: «Poco fuori dell’abitato sulla d. della strada per Uggiano la Chiesa si trova il dolmen Li Scusi, l’esemplare più bello e meglio conservato della Terra d’Otranto». Il Dolmen Li Scusi, dice la preziosa Guida Rossa Puglia, sia nella versione antica di copertina pieghevole non lisa dagli anni sia in quella con il contenitore rigido di rosso translucido, «ha la tavola di copertura a m 1 d’altezza dal terreno, è lunga m 3,80, larga 2,60, spessa cm 45, con un perimetro di m. 10,80; poggia su otto pilastri costituiti (tranne uno) da massi sovrapposti». Dunque esiste e il buco posizionato al suo centro, forse, nel solstizio d’estate, forma il raggio magico che ne illumina la base.

 

I cartelli si susseguono man mano che la strada asfaltata si riduce e, infine, si trasforma in un viottolo acciotolato. Lì, un cartiglio su un palo, coperto parziamente da arbusti pungenti, appoggiato alla spalla del muretto, lascia intravedere la bandiera blu stellata dell’Unione europea. Annuncia che il Parco culturale del Dolmen Scusi è stato finanziato nell’ambito del progetto operativo europeo Leader Plus. Il rosso baedeker di Corso Italia, antecedente ai fasti del 2009, non fa cenno, nella sua prosa austera di ingegneria turistica, di altri dolmen. Altre più recenti cronache informano che nel 1993 avvenne la scoperta, da parte di Oreste Caroppo, dei Dolmen Caroppo I e Caroppo II, a lui dedicati e sicuramente anch’essi nelle vicinanze.
Il viottolo si inoltra tra i muriccioli di pietra bianca che separano gli uliveti devastati dalla xilella, con i tronchi secolari deformati dalle amputazioni, in palese e violento contrasto con l’eleganza della geometria variabile di sassi sbozzati in rettangoli irregolari, che li circondano. Man mano la palificazione diviene sempre più evanescente, decolorata dalle muffe e dai funghi, qualche volta divelta, altra volta usata come tiro a bersaglio da cacciatori di allodole di passo. Il percorso è tracciato da cartelli ormai illeggibili e poi si perde in un campo senza dolmen, menhir o altri megaliti (di cui vi era però una accurata descrizione nei primi cartelli).
Una grande masseria moderna e una struttura alberghiera senza garbo ed eleganza, danno la fine e l’inizio del percorso senza meta. Allora si comprende perché il nome Li Scusi corrisponda, nella antica lingua salentina, a “luogo nascosto”, e non alla terza persona del congiuntivo presente del verbo scusare che, rivolto al viaggiatore, invoca il perdono per la mancanza di manutenzione dei luoghi.

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