Lazio, nel castello di Balthus

La dimora dell'artista Balthus, conte e pittore che si definiva “artigiano”. E poi il paese delle fiabe, un borgo fantasma...
Nella Tuscia viterbese si trovano paesi minuscoli che però raccontano vicende straordinarie. Tutte da scoprire

Sul tavolo da lavoro, nella soffitta del castello, c’è la pagina del Messaggero del 30 luglio 1973 con la foto della nuotatrice olimpionica Novella Calligaris. Pennelli, barattoli, olio di lino, colori indaco e vermiglio. E due cavalletti in cerca del padrone.
Con ogni probabilità quel giorno, nel maniero di Montecalvello nel Viterbese, mentre l’ondina nazionale dominava i campionati mondiali di Livorno, un ometto raffinato e segaligno, Balthasar Klossowski de Rola in arte Balthus, mescolava terre con carbonato di calcio e caseina. Era in quest’ambiente rischiarato dalla luce di un finestrone, con la predisposizione d’animo con cui un falegname costruisce armadi, che il pittore polacco naturalizzato francese dipingeva, meditava, si trastullava in mille incantesimi. «Non sarò mai un artista», diceva. «è una parola che detesto. Rivendico la parola artigiano, molto più nobile e appropriata. Si dice che gli artisti creano. Dio crea! Io lavoro». Per arrivare allo studio di Balthus bisogna percorrere i saloni del castello innalzato al tempo di re Desiderio, quindi intorno all’VIII secolo, scortati da gatti di ceramica piazzati accanto a letti a baldacchino, su camini e tavoli a tre gambe. Sono dappertutto, i gatti. Dopo la morte dell’amatissimo Mitsou, infatti, Balthus iniziò a dipingerne a decine. Una testolina spunta persino dall’oblò di una parete, come nelle navi fantasma. Sono i gatti i guardiani del castello. Scrutano il visitatore con occhi sibillini.
Ci si aspetterebbe di veder sfilare la Regina di Selvascura (protagonista de Lo cunto de li cunti di Giambattista Basile, ripreso dal film Il racconto dei racconti di Matteo Garrone, non a caso girato anche qui) e invece le sale restano vuote per buona parte dell’anno, anche prima del Covid.

Ce ne sono una settantina, di sale. Un gioco a incastro che parte dai sotterranei affollati di cunicoli e catacombe, forse grotte per culti legati al dio persiano Mitra, sale al piano nobile e poi al sottotetto, dove lavorava l’artigiano Balthus. L’ispirazione non mancava. Bastava sporgersi per annusare panorami ammantati di boschi, immutati da secoli. Unici segni di vita, nuvole, ali di rapaci, torri diroccate nel verde fitto e cupo. Innocui, fiabeschi orizzonti. Atmosfere che evocano le enigmatiche figure dipinte su muri e soffitti a cassettoni: putti alati, dèi, demoni, uccelli dai lunghi becchi, creature marine, leoni, grifi che lanciano messaggi a chi sa decifrarli. Forse il castello di Montecalvello è un percorso esoterico: la dimora filosofale dell’alchimista del secolo scorso celato sotto lo pseudonimo di Fulcanelli.
Nel salone di Giove, per esempio, il dio che cavalca l’aquila dipinto dal Rosso Fiorentino lancia saette dal camino, nella stanza dei Ludi Puerorum i puttini giocano con un orso, in quella degli Amori e dell’Amicizia, invece, si fronteggiano l’Amor Sacro e l’Amor Profano.
La cosa interessante è che, su fascioni e grottesche, alternati ai personaggi appaiono sempre alberi, piante, foglie d’acanto, tralci, uomini tra petali di fiori. è la simbiosi uomo-natura, perché solo attraverso questa può avvenire la trasmutazione alchemica dal piombo all’oro, processo che simboleggia l’elevazione spirituale. Roba da iniziati.
Per chiarire il dubbio ho scomodato il più autorevole depositario dell’inafferrabile sapere, il conte Stanislas Klossowski de Rola, per gli amici Stash, il figlio di Balthus, uomo coltissimo come il padre. È lui stesso, insieme a Rita Properzi, la guida che organizza le visite anche in sua assenza, a dipanare i segreti del castello. Non dovreste faticare a riconoscerlo: alto, esotico, profondo conoscitore di scienze alchemiche, sembra uscito da un romanzo di Alexandre Dumas. Non stonerebbe in uno dei decori delle pareti, e nemmeno come invitato al matrimonio che nel 1580 suggellò l’unione tra Angelica Giustiniani e Alessandro Monaldeschi, casato di cui resta memoria negli stemmi araldici delle stanze. «Ci vorrebbe una vita – dice – per svelare il mistero delle pitture, quasi tutte quattrocentesche. è un linguaggio oscuro, però io so leggerlo. So per chi sono state fatte e chi le avrebbe realizzate. Ogni figura rimanda a un’altra...».

 

Un dipinto in particolare, la donna nuda con la spada e il drappo rosso nel salone della Loggia, aleggia sopra ogni altro. «è la rappresentazione della pietra filosofale», spiega il conte, «la chiave di lettura di tutti i simboli alchemici».
Chi vuole conoscere l’intero apparato pittorico del castello, dovrebbe leggere il saggio scritto dalla storica dell’arte Maria Elena Piferi per Biblioteca e società, che fa il paio col prezioso resoconto di Claudio Mancini sulle Storie di San Francesco, i dipinti cinquecenteschi della cappella Baglioni nella chiesa di S. Maria Assunta, a Sipicciano. Entrambi devono aver trascorso intere giornate curvi sui libroni, spulciando archivi e biblioteche. A Sipicciano, avvolta da un’aura di fascino decadente, c’è anche la meravigliosa, settecentesca villa Lais. Se ne sta oltre il grande cancello, sospesa tra alberi secolari, vetusti saloni e storie di fantasmi. C’era la minaccia di una cordata russa che ne avrebbe decapitato l’anima. Per fortuna una spumeggiante coppia, Maddalena e Marco, ha fatto il nido qui, con quattro cani e dodici gatti, salvandola.
Montecalvello, Sipicciano, Roccalvecce, castello Costaguti: nomi stropicciati, forse di una vecchia filastrocca. E infatti a Graffignano, nel castello Baglioni, appare la misteriosa epigrafe lasciata quattro secoli fa da un prigioniero: Filippo Ferrari, chirurgo di Graffignano, carcerato per soddisfazione” (altrui, si presume).
Lo stesso castello si vede dipinto su una casa della vicina Sant’Angelo, il paese delle fiabe. Il borgo di poche anime languiva nell’anonimato e così a Gianluca Chiovelli venne l’idea di riunire artisti per tappezzare le case di colori, artiste donne però, hanno l’animo più incline alla magia. E così oggi, tra porte e finestre, spuntano il cappellaio matto e il soldatino di piombo. I murales sono più di trenta. Era destinato all’oblio Sant’Angelo, adesso per ammirare il miracolo delle favole sulle case sbuca gente da ogni angolo.

 

Anche la valorizzazione del borgo fantasma di Celleno è opera di “illuminati”: Piero Taschini e Mario Valentini. Grazie a loro sono stati recuperati gli ambienti di un tempo perduto: la cucina degli anni Trenta, la cantina intagliata nel tufo, le macchine parlanti, il forno medievale, grande come una cattedrale, dove le donne andavano a cuocere il pane. Nella piazza, accanto al campanile di S. Donato, c’è invece quel che resta dell’ex casa del telefono pubblico: un muro fatiscente con le finestre aperte sul nulla. Era il regno di Camilla e delle altre centraliniste. Ci sono ancora le loro vecchie biciclette. Quando una telefonata era imminente salivano in sella e frullavano i pedali per avvertire il cliente.
La storia di Celleno ricorda molto quella di Montecalvello. Anche qui aleggia il ricordo di un pittore, Enrico Castellani, il pioniere del minimalismo, dell’arte estroflessa, che aveva fatto del castello Orsini la sua casa. Chi passava lo sentiva piantare chiodi sulle superfici, così le pieghe delle tele riflettevano le cangianti luci del giorno, più o meno come quest’angolo di mondo cattura onirici racconti. Veniva anche Miuccia Prada a Celleno, per acquistare le sue opere. «Gli ultimi anni di vita – racconta Piero – oramai molto anziano, lo vedevamo salire col quad su per la rampa d’accesso al borgo, ormai spopolato». Poi si rintanava nel castello come un lupo solitario, unico abitante, per 45 anni, del paese fantasma. Era da questa salita, con le brocche in testa, che un tempo passavano le donne dirette alla fontana. Di ritorno, sotto il grande arco, ricevevano il bacio degli spasimanti. Amori fugaci, di un minuscolo paese. Succedeva che le più innamorate, senza farsi vedere, svuotassero la brocca giù dal dirupo. Dovevano tornare a prendere l’acqua e così, arrivate di nuovo sotto l’arco, avevano in premio un altro bacio. Storie d’altri tempi, che oggi fanno sorridere alcuni, e commuovono altri.

Fotografie di Paolo Simoncelli
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