di Stefano Brambilla
In un periodo in cui noi umani siamo tutti fermi, le piante continuano a spostarsi per il mondo usando ogni mezzo possibile. Ecco l’avventuroso viaggio di pomodori, avocado, kiwi e altri ancora. Una migrazione green perenne e molto ingegnosa
L’idea che le piante si muovano, anzi, l'idea che i vegetali facciano dei viaggi, beh, fa alzare più di un sopracciglio. Disorienta molti, perfino sconcerta alcuni. Già li vediamo, i punti interrogativi disegnati sui volti, per non parlare delle risatine di imbarazzo: uguali a quelle di parenti e amici a cui abbiamo provato a fare questa considerazione. Non c’è santo che tenga: per noi umani le piante sono immobili. Hanno le radici, no? Sono ancorate a terra, no? Ecco: gli animali sono dotati di movimento, le piante no. Punto e a capo. Eppure, basterebbe ampliare un po’ la prospettiva, essere di più larghe vedute. Certo, un organismo vegetale non può spostarsi dal luogo in cui è nato e cresciuto, nel corso della sua vita individuale. Non può andare a cercar cibo da un’altra parte e nemmeno in vacanza. Ma fermatevi un attimo e ragionate su periodi più lunghi. E pensate al fatto che quell’organismo vegetale appartiene a una specie, è accomunato ad altri organismi uguali a lui, pensate alle generazioni della sua specie nel tempo. Ecco allora che il concetto di movimento prende altri significati. E che comincerà ad apparirvi più chiaro come le piante si possono spostare. Non solo di qualche metro, ma di centinaia di chilometri, solcando gli oceani, attraversando deserti, passando perfino da un continente all’altro. A esplorare questi concetti per il grande pubblico è tra gli altri Stefano Mancuso, direttore del Laboratorio Internazionale di Neurobiologia Vegetale dell’Università degli Studi di Firenze, che in questi ultimi anni ha dedicato al tema numerosi volumi di facile e immediata comprensione. Tra questi, L'incredibile viaggio delle piante (Editori Laterza, 2018), una piacevolissima lettura che anche i meno botanici siamo sicuri apprezzeranno e a cui dobbiamo molti spunti per quest’articolo. Innanzitutto, Mancuso spinge a riflettere su come l’evoluzione abbia trovato maniere infinite e sorprendenti per permettere ai vegetali di conquistare nuovi spazi. Che i vegetali si propaghino per semi o spore lo sanno tutti; ma forse non tutti sanno che semi e spore si propagano grazie ai fattori più vari. C’è chi per esempio ha scelto di diffondersi via aria, con il vento; chi via acqua, tramite fiumi e torrenti; chi per una semplice caduta dalla pianta. Chi viene disperso grazie a meccanismi propulsivi, chi per idratazione o disseccamento. Ma anche chi ha “inventato” uncini per farsi trasportare da ali, aculei o pellicce. E chi ha escogitato di farsi mangiare da un animale, per poi essere espulso e germinare in un altro luogo: ci sono piante che si affidano persino a una specifica formica o a uno specifico uccello, senza il quale non potrebbero esistere. Non è sorprendente, a ben guardare, che le piante abbiano colonizzato tutti o quasi gli ambienti della terra.
A proposito di semi digeriti ed espulsi, tra i tanti possibili esempi, prendiamo quello dell’avocado. Mancuso intitola il capitoletto a lui dedicato “Mi manca tanto un mastodonte” ed è un titolo tanto simpatico quanto azzeccato. Perché l’avocado, originario dell’America, per la sua dispersione contava sui grandi mammiferi preistorici: bradipi giganti, armadilli di tre metri di lunghezza, elefanti a quattro zanne. Tutti vissuti fino a 13mila anni fa, non nella notte nei tempi. Se ne avete mai tagliato uno, avrete notato che l’avocado ha un seme fuori misura: era perché a quei tempi c’erano anche animali fuori misura, che potevano ingerire il seme senza spaccarlo e disperdendolo nell’ambiente. Peccato che poi quegli animali si estinsero: come dire, l’avocado aveva puntato sul cavallo sbagliato. La sua fine era segnata, se non che la pianta riuscì a rimanere in vita grazie ai giaguari (che occasionalmente se ne nutrono) e fu poi salvata dagli esploratori europei, fino a diventare cibo trendy per le comunità hipster di mezzo mondo. Fin qui si è parlato di “viaggi” più o meno ordinari, necessari alla sopravvivenza della specie. Ma i vegetali sono capaci anche di imprese eccezionali. Ce ne sono molte che lasciano a bocca aperta. I viaggi per mare, innanzitutto: quelli del cocco, per esempio, che è capace di rimanere vitale in acqua di mare fino a oltre quattro mesi e di diffondersi, portato dalle correnti, in mezzo mondo (dove peraltro ha cambiato la storia di popolazioni e civiltà). O quelli della Cakile arctica, una piccola pianta alofita (cioè in grado di utilizzare l’acqua marina per vivere) che fu la prima ad arrivare sull’isola di Surtsey, sorta dal mare islandese nel 1963. Immaginate: un cumulo di cenere, sabbia e lava ancora fumante. Un ambiente totalmente inospitale, che tuttavia la Cakile conquistò solo due anni dopo l’eruzione grazie alla possibilità di galleggiare dei suoi semi, capaci di resistere per anni in acqua. Naviga naviga, il caso fece approdare un piccolo seme di Cakile sull’isola. Fu seguito da molte altre: nel 2008 le specie di piante giunte a Surtsey erano già 69, di cui portate per il 64% dagli uccelli, il 27% dal mare e il 9% dal vento. Tutte desiderose di una vacanza sull’isola emersa dall’oceano.
Mancuso, a proposito dei viaggi e delle avventure delle piante in giro per il mondo, fa riflettere su due concetti importanti: quello delle piante migranti e quello delle specie invasive (“le native di domani”). Avrete sentito parlare di queste ultime: sono quelle piante (ma anche quegli animali) che riescono a occupare territori nuovi con grande successo, spesso a detrimento della flora locale. Piante che crescono rapidamente, che tollerano gli stress più variegati, che hanno ottima capacità di disperdere i propri semi. In poche parole: piante intelligenti, come le definisce Mancuso. Prendete Senecio squalidus, una erbacea nativa delle pendici dell’Etna, adatta anche lei a vivere in terreni con poche risorse. Attraverso scambi botanici, nel 1700 arrivò nel giardino botanico di Oxford. Neanche cent’anni dopo aveva colonizzato tutte le mura della cittadina. Poi il boom, grazie a un aiuto insperato: la ferrovia che unisce Londra a Oxford nel 1844. Il ghiaietto intorno ai binari è così simile alla lava dell'Etna... come non approfittarne? In pochi anni, il nostro Senecio avanza lungo la rete ferroviaria britannica, ibridandosi con le specie di Senecio locali e utilizzando anche lo spostamento d’aria provocato dai treni per disperdere i suoi semi. Negli anni Cinquanta del XX secolo è già in Scozia. Altro che Sicilia: Senecio squalidus viene chiamato in inglese Oxford Ragwort. Diventa British a tutti gli effetti. Da invasiva a nativa, come nelle migliori storie di creature migranti. Certo, in innumerevoli casi l’uomo ha aiutato molto i vegetali a viaggiare, fin dai tempi della prima domesticazione vegetale.
Un altro libro, dedicato ai ragazzi ma perfetto per chiunque sia curioso dell’argomento, tratta dei viaggi delle piante utilizzate dall’Homo sapiens per mangiare, bere, profumare, speziare. Si intitola non a caso Piante in viaggio (Editoriale Scienza, 2019) e l’hanno scritto Telmo Pievani e Andrea Vico nell’ambito di una bella iniziativa per festeggiare gli 800 anni dell’Università di Padova. La protagonista è Giulia, una ragazzina curiosa che girando con il nonno in un grande mercato (ispirato a quello di Porta Palazzo a Torino) impara vita, viaggi e miracoli di molte piante, dalle banane al caffè, dai fagioli al mais. Alcune storie appaiono incredibili, come quella del pomodoro, che arrivò dal Messico nel Cinquecento con i primi colonizzatori. Allora la varietà approdata in Europa era gialla (da qui il nome pomo d’oro) e per anni il pomodoro fu usato solo come pianta ornamentale; solo verso la fine del Settecento le sue proprietà gastronomiche iniziarono a essere riconosciute in vari Paesi. Fece il percorso inverso il melo, che dal Kazakistan conquistò l’Europa e arrivò negli Stati Uniti nel Seicento – con grande successo, visto che la apple pie è la più classica delle ricette statunitensi (per non parlare del ripieno del tacchino). E così via: da ovest a est la patata, il basilico, il peperoncino; da est a ovest il grano, il caffè, la vite. Come al solito, l’uomo ha sparigliato anche tutte le carte delle piante.
Parlando di uomini che hanno dato una mano alle piante nei loro giri intorno al mondo, citiamo un ultimo libro, per concludere, dal titolo quasi uguale ai precedenti – Le incredibili avventure delle piante viaggiatrici (Add Editore, 2020) – ma di contenuto un po’ diverso: l’autrice francese, Katia Astafieff, racconta dieci storie di altrettante piante “scoperte” da altrettanti esploratori. Lo stile è a volte fin troppo spigliato, ma si imparano altre avventure botaniche mirabolanti, titolate per esempio “Il favoloso destino del piccolo frutto verde scoperto in Cina da un astuto gesuita” o “L'avventura fumosa di un’erba non particolarmente ortodossa scoperta in Brasile da un monaco curioso”. Vorremmo lasciarvi nel dubbio, a indovinare di quali piante si tratta, ma saremo magnanimi: la prima prese il suo nome nel 1959 (soltanto nel 1959) dall’uccello simbolo della Nuova Zelanda, il kiwi, di cui ovviamente non è nativa ma dove allora veniva ampiamente coltivata; la seconda è legata al nome di Jean Nicot, che per primo la introdusse in Francia dopo averla offerta a Caterina de Medici per curare le sue emicranie – ed è nientemeno che il tabacco. C’è poi “L’avventura in stile James Bond di una pianta rubata ai cinesi da una spia inglese”. Uno dei viaggi più belli e significativi mai compiuti da una pianta: che mondo sarebbe senza la Camellia sinensis infusa miliardi di volte alle cinque del pomeriggio, ovvero sua maestà il tè?