di Tino Mantarro | Foto Archivio Tci
Cartoline dallo splendid passato dello Yemen, Paese ridotto in ginocchio da una guerra civile che dura ormai da 6 anni
La mappa del mondo visitabile è una costruzione a geometria variabile. Come certe dune del deserto, muta di anno in anno, di mese in mese. Basta una tempesta geopolitica, un cambio di Presidente, una stagione meno piovosa del solito e quel che ieri era sicuro, oggi non lo è più. Allo stesso modo, per fortuna, accade che quello che per anni è stato off limits, si apra quasi all’improvviso al turismo e finalmente diventi visitabile in sicurezza. Negli ultimi dieci anni è successo in senso positivo in Paesi come lo Sri Lanka. O, in senso contrario in tanti altri Paesi, nel mondo arabo e in Africa. Uno di questi è la Siria: per anni destinazione classica per chi era in cerca delle speziate atmosfere del Vicino Oriente. Dal marzo del 2011, quando è scoppiata la guerra civile che ancora dura, è stata cancellata dalle mappe del turismo. Idem per la Libia e – in parte – anche per Egitto e Tunisia. O per il Mali, che era diventata una destinazione per gli amanti dei deserti attratti dal mito di Timbuctù. E invece dal 2012, con la dichiarazione di secessione del cosiddetto Azawad – un territorio desertico del Nord – e poi con la successiva invasione del Nord da parte di forze islamiste, è diventato un posto pericoloso da cui stare alla larga, con la Francia che è intervenuta per provare a dare stabilità alla sua ex colonia. Senza parlare di Stati lungodegenti come l’Afghanistan o l’Iraq, che non vedono turisti regolari dagli anni Settanta. Basta sfogliare le pagine dell’Atlante delle guerre (atlanteguerre.it) per tenersi aggiornati su conflitti vecchi e nuovi, che rendono il mondo più insicuro e meno visitabile.
Tra i Paesi più insicuri in questo scorcio di secolo c’è di certo quello in cui sono state scattate le immagini di queste pagine, tratte dall’Archivio fotografico del Tci: lo Yemen. «Architettonicamente, è il Paese più bello del mondo. Sana’a è una Venezia selvaggia sulla polvere senza San Marco e senza la Giudecca, una città-forma, la cui bellezza non risiede nei deperibili monumenti, ma nell’incompatibile disegno». Lo diceva Pier Paolo Pasolini, che nell’ottobre del 1970 girò nella capitale yemenita alcune scene del suo Decameron. Ma rimase talmente affascinato da quelle terre da tornare tra il 1973 e il ’74 per girare parte del Il fiore delle Mille e una notte, contribuendo a farla dichiarare patrimonio dell’umanità dall’Unesco.
Queste foto sono scattate pochi anni prima, nel 1967, anno che segna la fine del controllo britannico sul Sud del Paese. Zona che si sviluppa intorno al porto di Aden e, dopo l’apertura del canale di Suez, divenne fondamentale punto di rifornimento sulla rotta tra l’Egitto e l’India britannica. Intorno una nuda pianura pietrosa, serrata dalle montagne e chiusa dal mare. Pianura e montagne abitate da tribù che dai viaggiatori occidentali sono sempre state raccontate come armate, irascibili e sospettose. Tutte assai gelose del loro potere, al punto che a fine Ottocento gli inglesi si trovarono a imporre il loro dominio su 23 entità politiche diverse tra emirati, sultanati e staterelli vari. Una frammentazione dei territori dello Yemen che in parte è all’origine anche della crisi attuale. Dopo la cacciata degli inglesi il Sud fu unificato nella Repubblica Democratica Popolare dello Yemen di stampo marxista, mentre al Nord la Repubblica Araba dello Yemen era governata con il pugno duro da Alì Abdullah Saleh. I due Paesi si unirono nel 1990, confluendo in quello che per decenni è stato il Paese più povero di tutto il Medio Oriente.
Un’unione precaria, più volte messa in discussione. Sfarinatasi a partire dalla primavera del 2015 quando nel Paese ha avuto inizio uno scontro armato fra gli insorti Houthi, sciiti zayditi e filo iraniani, e il governo centrale, sostenuto dall’Arabia Saudita che partecipa attivamente al conflitto guidando una coalizione che comprende anche gli Emirati Arabi Uniti. Si tratta di una guerra civile che fino a ora ha causato oltre 100mila vittime e un’emergenza umanitaria senza fine, che riguarda oltre 24 milioni di abitanti del Paese. Una guerra che è diventata un tutti contro tutti, con bombardamenti sulla capitale e civili inermi come bersaglio. Una guerra che ha ridotto in ginocchio un Paese bellissimo. Paese di sabbie e grattacieli di fango, che però chissà ancora per quanto non si potrà visitare.