Nel Kirghizistan casa per casa

Tino MantarroAndrea ForlaniAndrea ForlaniAndrea ForlaniAndrea ForlaniAndrea ForlaniAndrea Forlani

Hanno scelto di puntare sul turismo di comunità, un modo che permette di conoscere da vicino questo popolo di ex nomadi, mangiando e dormendo nelle loro tende nella steppa e tra le montagne. Questo è il racconto dell’esperienza

Si avanza per interi quarti d’ora senza incontrare nessuno. Nessuna macchina, nessuna persona, solo qualche animale che vaga, una linea infinita di pali del telefono, stormi di corvi a bordo strada e fermate dell’autobus in cemento sbrecciato che chissà da quanto tempo non vedono un passeggero. Spazzata dal vento la strada prende sempre più quota, attraversa un altopiano immenso e porta verso la Cina, lontana come un miraggio. Sulla destra, l’ennesima frazione della catena del Tien Shan, con i suoi picchi innevati che superano i seimila metri e sembrano onde di un mare in tempesta. Intorno a noi un altro mare, verde e quieto: erba giovane, tenera, fresca. Pennacchi di fumo macchiano un cielo altrimenti terso, devono arrivare dagli accampamenti di yurte che punteggiano l’orizzonte. La strada conduce al passo Torugart, che a 3752 metri rappresenta una delle due sole vie di accesso tra Kirghizistan e Cina. Al tempo dei sovietici il confine era sigillato, alcuni tratti minati, la strada vigilata da una sfilza di torrette di guardia. Oggi sono abbandonate, sembrano postazioni di bagnini che osservano un mare in secca. L’asfalto è nero, recente, percorso da rari camion con targa kirghisa che tornano carichi fin all’inverosimile di mercanzia che inonderà i bazar del Paese. All’andata trasportano rottami di ferro, una delle poche cose che il Paese abbia da offrire ai mercanti cinesi. Per quanto minore anche questo è un ramo della Nuova Via della Seta cinese, la “One Belt, One Road”, che punta ad aprire ancor più ai cinesi i mercati del mondo.

A un certo punto abbiamo lasciato la strada maestra e ci siamo addentrati per una valletta laterale, salendo impercettibilmente lungo un cono di detriti lasciato da un torrente in piena. Quando la valle si è fatta stretta, la strada si è insinuata tra pareti spoglie color creta e allora si è intravista la cupola del caravanserraglio di Tash-Rabat, la nostra destinazione. Costruito in pietra scura e munito di torri, sembra quasi mimetizzarsi con il paesaggio. Presidia la valle da centinaia di anni e il suo ingresso assomiglia a quello di una caverna. L’interno è scuro, il pavimento è un tappeto di pietre smosse, gli ambienti, stanze piccole dove dovevano riposare uomini, cavalli e cammelli. La città cinese di Kashgar si trova 300 chilometri e molte montagne più a Est, e di certo era la meta dei mercanti che transitavano da queste parti.

Di mercanti non se ne vedono più da un pezzo, ma in compenso passano i turisti. Arrivano meno stremati dei viandanti di un tempo, ma si fermano lo stesso qui per riposare e godere di questa immensa, pacifica solitudine. Da qualche anno ad accoglierli c’è Cholpon Sabyrbek, una ragazza che avrà trent’anni scarsi e aiuta la famiglia a gestire il campo tendato poco distante dal caravanserraglio. Sono cinque yurte dove dormono gli ospiti e una più grande, dove si mangia. Lei e il resto della famiglia dormono in una casetta di muratura, accanto ci sono i bagni, in muratura anch’essi, quasi un record. La madre di Cholpon, una signora possente che indossa una veste colorata e un fazzoletto stretto sul capo, è stata una delle prime donne della regione a credere nel turismo. Lo ha fatto aderendo al progetto Cbt Kirghizistan, dove Cbt è un acronimo inglese che sta per turismo di comunità. Si tratta di un progetto nato nel 2000 in due comunità rurali, Kochkor e Jalalabat, a 250 chilometri dalla capitale Biškek. È frutto dell’impegno e del finanziamento dell’organizzazione per la cooperazione internazionale svizzera, Helvetas. Svizzeri che devono aver sentito aria di casa in un Paese che per il 90 per cento della superficie si trova oltre i 1500 metri di altitudine, ha un’altezza media di 2750 metri e per il quattro per cento è coperto da ghiacciai. Tutte queste montagne devono aver suggerito l’idea che il Paese centroasiatico avesse le potenzialità per replicare il loro successo turistico. Oggi le famiglie coinvolte sono oltre 300, i turisti in arrivo in crescita costante. Nel 2019, si era arrivati al record di 23mila pernottamenti; lo scorso anno zero. Un problema enorme per le famiglie che grazie al turismo sostenibile hanno iniziato un percorso per uscire dall’economia di sussistenza. Che poi è la storia della madre di Cholpon, dal 2005

«Il nostro obiettivo minimo è migliorare gli standard di vita delle comunità locali e sostenere lo sviluppo socio economico del Kirghizistan rurale. Quello più ambizioso è fare del Kirghizistan la più importante destinazione di ecoturismo nell’area centroasiatica, stando attenti a mantenere sempre l’equilibrio tra un prezzo equo e la qualità dell’offerta», spiega Asylbek Rajiev, direttore esecutivo del Kcbta, associazione che fa da cappello alle 15 realtà locali in cui si pratica turismo di comunità. All’inizio offrivano solo pernottamenti e colazioni nelle abitazioni dei villaggi o nelle yurte, piano piano oltre a ingrandire la rete coinvolgendo sempre più famiglie (hanno case in tutte le regioni del Paese) hanno iniziato a offrire altri servizi, dal trekking alle visite guidate, dalle auto con autista ai festival del folklore. Grazie a questa forma di turismo le comunità locali hanno il controllo sia del loro coinvolgimento nell’attività turistica sia nel suo sviluppo e gestione. «In termini pratici vuole dire che il 90 per cento di quel che si paga per vitto e alloggio rimane alle famiglie ospitanti, mentre il dieci va all’associazione centrale che si occupa di prenotazioni e marketing», prosegue Rajiev. Il bello di questo progetto è che gli svizzeri l’hanno ideato, ma adesso cammina con le sue gambe, gestito interamente da kirghisi.

Se Cholpon parla un inglese fluente lo deve a questo progetto. «Mia madre grazie agli svizzeri ha seguito un corso in cui ha imparato i rudimenti dell’ospitalità turistica. Viviamo in un villaggio a 30 chilometri, ma in estate ci trasferiamo qui perché vogliono venire i turisti. All’inizio avevamo due yurte, e noi vivevamo in una terza. Adesso sono cinque». Con i soldi guadagnati la madre è riuscita a mandare lei e i suoi due fratelli all’università a Biškek. Cholpon ha studiato informatica, la sorella è addirittura andata a studiare a Parigi. «Ma io sono tornata qui perché con l’inglese posso aiutare la mia famiglia. E poi mi piace costruire qualcosa di accogliente per i turisti che però non snaturi il nostro modo di vivere» racconta. Con lei c’è la figlia, che gioca con una coppia di intrepidi rocciatori francesi che hanno viaggiato in lungo e in largo per il Paese in cerca di vette mai scalate prima. Mentre Cholpon prepara una tisana per contrastare il mal di altitudine utilizzando l’acqua del samovar, una specie di bollitore perpetuo onnipresente nel mondo russo, la madre va a togliere le stufe di ferro dalle yurte. Le montagne del Kirghizistan sono brulle, non c’è legna per centinaia di chilometri, per combustibile si usano mattoni di paglia e sterco seccati al sole. Non fanno fiammate, scaldano tanto e si spengono per sfinimento. Mentre noi ci accucciamo nelle yurte Anatolj, il nostro autista, dorme in macchina, nonostante a oltre tremila metri faccia un discreto freddo. Silenzioso al limite dell’irritante, non parla, accenna: quando muove leggermente il mento sta indicando qualcosa che dobbiamo fare o vedere. Sembra una spia russa sotto copertura e hai come l’idea che finga di non sapere l’inglese, quando invece lo capisce benissimo. Alto, capelli chiari, ha la faccia di quello che a un certo punto inizierà a parlare solo per dirti «Io ti spiezzo in due» come Ivan Drago in Rocky IV.

Avere l’autista non è un vezzo, ma fa parte del pacchetto che mette a punto il Cbt per visitare il Paese. Del resto affittare un’auto non è esattamente semplice, guidare richiede prudenza e una volta arrivati al villaggio trovare le case, o le yurte, potrebbe non essere scontato. Così invece pensa lui a tutto, altrimenti difficilmente saremmo riusciti ad arrivare alla tappa precedente, il lago Songköl. Si tratta di un grande specchio d’acqua talmente poco profonda da sembrare quasi un allagamento più che un lago vero e proprio, più che altro è un velo leggero di azzurro su cui si riflettono nuvole opalescenti. Il Songköl occupa un altopiano appena concavo, circondato da profili di montagne che non sembrano neanche troppo alte, solo imponenti. Siamo poco sopra i tremila metri di altitudine e qui in estate si accampano i pastori della valle dello Jumal con yak, cavalli, pecore e mucche. La loro è una transumanza antica, si chiama jailoo in kirghiso, e ha regole precise. Ogni comunità allestisce un campo di yurte e occupa una zona definita, mentre tutti gli animali di un clan pascolano insieme, vigilati da giovani pastori con il cappello di feltro bianco che cavalcano i piccoli e possenti cavalli a pelo corto della razza locale.

In questi campi tendati, che sono assai più grandi di quello dove abbiamo dormito a Tash-Rabat, ogni gruppo di ospiti ha la sua yurta di feltro, apparecchiata come la cuccetta di una nave. Il giaciglio ha tre strati di tappeti sotto e tre strati di coperte sopra: nei fatti un sarcofago, ma confortevole. Del resto un po’ l’effetto dell’altitudine, un po’ la grandiosità dello spettacolo notturno, conciliano il sonno. Mette tranquillità ammirare lo spettacolo offerto da questo cielo scuro di sovrumana grandezza. Pare il soffitto di certe chiese finto romaniche riccamente affrescate, un soffitto costellato di miriadi di stelle che sembrano messe lì per segnare il cammino a chi viaggiava lungo al Via della Seta. È tutto così antico e ben organizzato che ti viene da pensare che Jean Cocteau avesse ragione quando sosteneva che «il progresso potrebbe essere lo sviluppo di un errore». Anche se difficilmente cambieremmo la nostra vita con quella di questi pastori erranti dell’Asia, viene lo stesso da ringraziare gli svizzeri che hanno messo in piedi questo progetto, permettono a noi di fare certe esperienze e a queste famiglie di guadagnarsi da vivere. Perché il Kirghizistan con la Confederazione Elvetica in comune ha solo le montagne. Il reddito procapite è 1.400 euro, l’economia poco più che di sussistenza. Ci sono miniere di carbone, oro e uranio, sfruttato per l’industria nucleare sovietica, ma la parte del leone la fanno agricoltura e allevamento.

Questo è un Paese legato ancora all’economia del bazar: quel che si produce viene venduto al mercato dove si compra il necessario per vivere. Senza interventi esterni la possibilità di risparmiare e arrivare a costruirsi un gruzzolo da investire è un sogno per pochi. A differenza degli altri Paesi ex sovietici governati da governi autocratici, il Kirghizistan, crollato l’Urss, ha avuto una transizione verso la democrazia con elezioni regolari. Anche se ciclicamente i presidenti vengono rimossi da rivolte di piazza. È capitato lo scorso ottobre, quando il presunto vincitore – il presidente uscente Sooronbay Jeenbekove – è stato deposto pochi giorni dopo il voto. Nelle elezioni di gennaio si è affermato il controverso Sadyr Japarov, un politico nazionalista e populista che in autunno si trovava in carcere, accusato di aver rapito un avversario politico, ma è stato liberato dai rivoltosi. Cicliche rivoluzioni a parte, il Paese è comunque assai sicuro e tranquillo da visitare. Peccato che quale che sia il governo di turno non ci sia da sperare che facciano molto per lo sviluppo del turismo e delle zone rurali.

E allora ben vengano progetti come questo del Cbt. Anche se non sempre finisci in una fascinosa tenda: alle volte dormi in casette basse e tozze, con tetto di lamiera e finestre scrostate. Però ovunque si può star sicuri che l’accoglienza è sempre genuina, i prodotti sono locali, la gentilezza garantita. Se si parla almeno un briciolo di russo (il kirghiso, del ceppo turco, difficile lo si conosca) è anche possibile che si riesca a intavolare una conversazione con i padroni di casa, altrimenti bisogna sperare in giovani come Cholpon, o autisti anglofoni e più loquaci del nostro Anatoly.
Non accade così a Sary Tash, villaggio a 3150 metri di altitudine sulla strada che dal confine cinese, sul passo di Irkeštam, conduce al Tagikistan lungo la Pamir Highway. Qui nessuno parla inglese, gli ospiti vivono in una casetta poco distante e fanno spola con la cena. Si mangia a gambe incrociate, seduti sul tapchan, un grande letto coperto di tappeti su cui viene posto un tavolino basso. La tovaglia è tappezzata di piattini con frutta, ruote di pane, carne grigliata, ravioli bolliti, formaggio fresco, pomodori anemici e cetrioli in abbondanza. Il bagno è esterno, una latrina decorosa. L’acqua corrente è un esperimento ben riuscito dell’arte di arrangiarsi: un bidone di plastica tagliato in basso e sistemato sopra un lavandino con tanto di specchio. Tiri la cordicella e l’acqua scorre. Sarà poco, vero.
Ma prima che arrivassero gli svizzeri con il loro progetto di turismo sostenibile, non c’era neanche quel poco.

Fotografie di Andrea Forlani
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