Napoleone a Milano. Nostalgia dell'Impero

Marco GarofaloMarco GarofaloMarco GarofaloMarco GarofaloMarco GarofaloMarco GarofaloMarco GarofaloMarco GarofaloMarco Garofalo

A 200 anni dalla scomparsa dell’imperatore che cosa resta degli interventi che il grande Còrso realizzò nella capitale dell’illuminismo italiano, cambiandole radicalmente il volto e il ruolo geopolitico grazie ad ambiziosi piani regolatori?

All’indomani della vittoria della Francia ai Mondiali di calcio nel 2018, il Louvre pubblicò su Twitter l’immagine della Gioconda vestita con la maglia della nazionale francese. Prontamente gli italiani risposero a colpi di “Ridateci la Gioconda” e con il meme di un capannone vuoto con la scritta “Ecco come sarebbe il Louvre senza opere italiane!”. Polemiche a parte – per la cronaca il quadro più famoso del mondo fu regolarmente acquistato da Francesco I° dallo stesso Leonardo – è innegabile che il grande museo parigino deve molto a un impunito ladro di opere d’arte. Un certo Napoleone Bonaparte, che fece più volte la spesa nelle straordinarie collezioni artistiche degli antichi Stati italiani caduti nella sua rete. È rimasta celebre a questo riguardo la provocazione che il grande Còrso rivolse allo scultore Antonio Canova a Villa Manin di Passariano di Codroipo (Ud) durante la campagna d’Italia: «È vero che gli italiani sono tutti ladri?». Pronta la risposta dell’artista «Generale tutti no, bona parte sì!», colpendo così in un’unica, tagliente risposta il vezzo di Napoleone di firmarsi Bonaparte, per togliere al suo cognome il suono italiano (“Buonaparte”), e al tempo stesso stigmatizzare la sua scellerata politica delle spoliazioni. Eppure l’abile e rapace Napoleone che venne, vide e vinse, non ha solo tolto ma ha anche dato all’Italia. È quello che è successo all’Elba, che in una manciata di mesi l’ex imperatore divenutone sovrano dotò di strade e infrastrutture, spingendo la piccola isola nella storia. Ed è quello che era già accaduto a Milano. Nel giro di pochi anni infatti – dal 1796, con l’arrivo del bruno e nervoso generale dal cappello a due punte alla testa dell’esercito rivoluzionario francese, al 1814, con il ritorno degli austriaci – la città aveva cambiato volto. Vent’anni di grandeur sancita dalla celeberrima frase “Dio me l’ha data, guai a chi me la tocca!”, pronunciata nel maggio 1805 da Bonaparte calcando a forza sulla testa quella Corona Ferrea dei re longobardi che gli era pure stretta. Auto incoronandosi Re d’Italia, dopo soli tre anni dalla sua creazione Napoleone decreta la fine della Repubblica Italiana (che è subentrata a quella Cisalpina) e la nascita del Regno italico, affidato al ventiquattrenne figliastro, Eugenio de Beauharnais, unico maschio della splendida moglie creola Giuseppina.

L’ingresso del volitivo generale in quella che è la capitale dell’illuminismo italiano e si identifica negli ideali della rivoluzione che egli incarna non può non avere una ripercussione sulle arti e sull’architettura locali, che vedono l’abbandono delle forme esuberanti e convulse del barocco a favore di un più impettito e raggelato stile impero. Stile anticipato nel palazzo (ora Villa Comunale) ideato nel 1790 da Leopoldo Pollack, allievo di Giuseppe Piermarini, per il generale Ludovico Barbiano di Belgiojoso e nel quale si installa Bonaparte, che sceglie invece per la propria residenza estiva Villa Pusterla-Crivelli di Mombello, in provincia di Monza e Brianza, dove farà celebrare le nozze di due membri del suo numeroso clan familiare, capitanato dalla severa madre Letizia Ramolino, al quale distribuirà le corone d’Europa: l’ambiziosa Elisa e la capricciosa ma generosa Paolina. Quello di Napoleone per Milano è amore a prima vista. Roma non gli piace, troppo legata al Papa. Nei suoi disegni, insieme a Parigi e Francoforte, il capoluogo lombardo, snobbato da Giuseppina che lo ritiene troppo provinciale, deve diventare una delle tre capitali d’Europa (oltre che d’Italia). E perché sia all’altezza di un tale compito, commissiona nel 1801 a Giovanni Antonio Antolini il primo piano regolatore della città, un ambizioso progetto architettonico che prevede la razionale riorganizzazione degli spazi e dei servizi collettivi. Fulcro del nuovo assetto urbanistico chiamato Foro Bonaparte, che mira a fare della città ereditata dagli austriaci un centro moderno ed efficiente, il Castello Sforzesco vede la demolizione delle torri laterali e degli antichi bastioni spagnoli e la sua trasformazione in una costruzione classicheggiante grazie a un frontone e un tripudio di marmi e colonne. Attorno, collegati da una serie di colonnati, 14 edifici pubblici fra terme, dogana, teatro, museo, borsa, pantheon e sale per le assemblee popolari. Il tutto circondato da un portico continuo e da un canale navigabile collegato ai navigli per permettere il passaggio delle barche con le merci dirette ai magazzini. All’ingresso della piazza, del diametro di oltre 600 metri, due caselli daziari, altrettante colonne miliari e le statue di Castore e Polluce. Un progetto eccessivamente costoso e sovradimensionato per una città di 120mila abitanti, sostituito nel 1803 da uno più economico e ridotto firmato dal ticinese Luigi Canonica, architetto di Stato subentrato al Piermarini. Il nuovo assetto prevede fra gli altri, oltre a quella antistante, trasformata in una piazza d’armi per le parate, anche la sistemazione dell’ampia area retrostante il Castello e la costruzione di un’Arena civica, sempre a firma di Canonica, un grande anfiteatro per le feste e gli spettacoli. Fondamentale è l’attività della Commissione di Ornato, istituita nel 1807. Scopo della commissione controllare l’edilizia pubblica e privata e i servizi collettivi (mercati, cimiteri, orfanotrofi, macelli…) attraverso una ripetizione di schemi semplici e rigorosi che determinano quell’omogeneità dell’architettura neoclassica milanese ancora oggi riconoscibile, stabilire le caratteristiche estetiche degli edifici in affaccio sulle pubbliche vie, i colori e i materiali di rivestimento da utilizzare (con l’obbligo di presentare il disegno delle opere che si intendono realizzare: “Chi vorrà fabbricare, o ristaurare qualche casa, o fabbricato qualunque dovrà presentare il disegno tanto della pianta della facciata con la linea precisa, su cui si intende di fabbricare, quanto all’elevazione della medesima…” ), ma soprattutto redigere il Piano urbanistico generale di Milano.

Il progetto, noto come Piano dei rettifili, prevede il tracciamento di nuove strade e l’allargamento e allineamento degli assi viari e delle costruzioni secondo una maglia di rettifili ortogonali, “raddrizzando” gli irregolari tracciati cittadini. Tracciati segnati dal rifacimento in chiave monumentale delle Porte cittadine, non più intese come strutture difensive o sedi del dazio ma trasformate in elementi architettonici di prestigio ispirati agli archi trionfali romani, e la risistemazione in chiave paesaggistica dei Bastioni, con l’istituzione di pubblici viali di passeggio alberati. La città tende a svilupparsi lungo una serie di direttrici. Una corre lungo gli attuali corso Venezia – che si anima dei palazzi neoclassici eretti dalla nobiltà filo francese, come i Serbelloni – Porta Venezia, corso Buenos Aires. La direttrice più importante invece parte dall’Arco della Pace commissionato nel 1805 a Luigi Cagnola e, lungo i novelli Champs-Élysées milanesi di corso Sempione, si ricollega alla Via Francigena e alla neonata strada del Sempione, per raggiungere la Francia, mentre dall’altra parte attraversa la città sino all’Ospedale Maggiore. L’arco avrebbe dovuto essere ornato da bassorilievi che celebravano la sua vittoria a Jena sulla Prussia, ma a opera quasi compiuta Napoleone viene fermato dalla storia e al loro ritorno gli austriaci se ne appropriano dedicandolo all’Età della Restaurazione. Non contenti ruotano di 180 gradi le statue della sestiga con i cavalli in bronzo che lo sormontano, voltando così anche fisicamente le spalle (e le terga) alla Francia.

Napoleone ama Milano ma ne soffre il caldo estivo. Per sfuggirlo fa realizzare viali alberati e impiantare un gran numero di platani – come non ricordare a questo proposito la domanda posta dal volitivo Bonaparte, in preda a furore botanico, alla solita vittima, Antonio Canova: «Perché a Roma non piantate alberi?». «Perché preferiamo piantare obelischi!» risponde orgoglioso l’artista –, e si rifugia nella Villa Reale di Monza, eretta dagli Asburgo, per la quale vengono progettati un grande parco e riserva di caccia di 750 ettari, racchiusi da un muro di cinta di 14 chilometri, il più lungo d’Europa. Contrariamente a Roma, nella dinamica Milano napoleonica lo slancio della visione non è fermato dal peso della memoria e la città si presta docilmente alla smania edilizia e alla mania di controllo del generale-Primo Console-Re-Imperatore che non a caso ha come simbolo le api operose e tutto piega al suo volere. Oltre a cambiare la faccia di Milano infatti il Còrso cambia anche quella del suo Duomo, che fa da quinta teatrale alla scenografica auto incoronazione. Una facciata ancora incompiuta, qualcosa di inconcepibile per la cattedrale della capitale del nuovo Regno, ma soprattutto inaccettabile per l’amor proprio di un personaggio che costruisce la propria fortuna sul culto della personalità e su un’abile campagna mediatica. Quella che trasforma il generale dal rosso mantello a cavallo di un destriero bianco rampante dipinto da Jacques-Louis David nel sovrano cinto d’alloro raffigurato da Andrea Appiani e che si ispira alla Roma imperiale, di cui saccheggia a piene mani icone e atteggiamenti. Napoleone lo vuole, Milano obbedisce: impone alla Fabbrica del Duomo di vendere i propri immobili per iniziare i lavori della facciata e promette cinque milioni di lire (i milanesi stanno ancora aspettando), ma in sei anni risolve due secoli di dispute architettoniche. Non meno perentorio il decreto emanato per la costruzione del Naviglio Pavese: «Il canale da Milano a Pavia sarà reso navigabile. Mi sarà presentato il progetto avanti il 1° ottobre e i travagli saranno diretti in modo da essere terminati nello spazio di otto anni», mentre due sono gli anni concessi per la costruzione dell’Arena. Non gli occorre molto tempo invece per “assurgere” al cielo, raffigurato in una delle 3.200 statue che ornano le guglie del Duomo. Il cardinal Caprara infatti inventa un santo con il suo nome storpiando quello di San Neopolis, di cui sposta la data del martirio dal 2 maggio al 15 agosto, santificando così il genetliaco di Napoleone.

Come ogni santo che si rispetti anche il sovrano ha le sue “reliquie”, custodite a Palazzo Moriggia, sede del Museo del Risorgimento: il manto di velluto verde, lo scettro, la corona di Re d’Italia, l’inconfondibile bicorno da generale che, per essere riconosciuto, anziché perpendicolarmente, portava parallelamente alle spalle. È il milanese Andrea Appiani, alfiere del Neoclassicismo, a cogliere per primo in un disegno a carboncino dal vivo l’energia del ventisettenne generale, di cui godrà presto i favori. Appiani raffigura più volte Bonaparte e per Bonaparte disegna medaglie, proclami, scenografie, mobili, costumi. Ed è sempre Appiani, nominato primo pittore del Re d’Italia, a realizzare gli affreschi dell’epopea napoleonica nel Palazzo Reale di Milano, risistemato per volere dell’imperatore da Luigi Canonica, di cui sopravvive la lunetta con l’Apoteosi di Napoleone, e il Parnaso dipinto per la sala da pranzo della Villa Reale di via Palestro. Al pittore il Còrso affida l’Accademia e la neonata Pinacoteca di Brera, che nei suoi disegni deve imitare il Louvre, un museo nazionale con opere sottratte, guarda caso, ad altri musei, anche se il padrone di casa rimane sempre lui, l’imperatore, che troneggia come Marte pacificatore al centro del cortile dell’istituzione accademica nella monumentale trasposizione bronzea, frutto della fusione dei cannoni di Castel Sant’Angelo (ogni riferimento è assolutamente voluto), da un modello dell’immancabile Canova. Si racconta che quando Napoleone entrò nel 1796 a Milano tra la folla ci fosse un uomo che non fece altro che fissare i suoi stivali. Si chiamava Anselmo Ronchetti, era un ciabattino, e dopo qualche giorno si presentò al generale consegnandogli un paio di stivali confezionati “a occhio”. Calzavano perfettamente, la misura era fra il 40 e il 41 e furono pagati 40 luigi. Da allora la bottega di Ronchetti in via Durini potè annoverare fra i propri clienti personaggi come Parini, Alfieri, Foscolo. Bonaparte peraltro di scarpe se ne intendeva. Per attaccare separatamente le truppe nemiche costringeva i suoi soldati a marce anche di 40 chilometri al giorno e poiché, come sosteneva, «Le battaglie si vincono con le scarpe dei soldati», li dotava di tre calzature (una di scorta da tenere nello zaino), che andavano bene sia per il piede destro sia per il sinistro ed erano prodotte solo in tre taglie. Ma, arrivato il 1814, il tempo stava per scadere. La prossima a fare le scarpe all’imperatore sarebbe stata l’Europa.

Foto di Marco Garofalo
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