di Marco Mottolese
A terra gli aerei, che hanno da decenni stravolto i parametri di riferimento del tempo di viaggio, in seguito alla pandemia il pianeta ha smesso - almeno per un po' - di essere tascabile
Da piccolo, prendendo pian piano coscienza del mondo e della sua geografia, avevo l’impressione di avere a che fare con distanze siderali e panorami – così innumerevoli e diversi – che mai avrei avuto il tempo e l’opportunità di goderne dal vivo, tanto disseminati apparivano sull’immensa palla sospesa nell’universo che mi affascinava e atterriva allo stesso tempo. Geografia, a scuola, è materia anomala. Per alcuni rappresenta, più che studio, gioco, mentre altri, pur di non imparare a memoria la capitale del Lesotho, volentieri si sottopongono alle torture millenarie della Storia. Crescendo, io che la geografia amavo, trovai un modo bellissimo di ripassare la lezione: viaggiare. Appena maggiorenne feci un patto con me stesso: «Viaggerò per verificare di persona quello che ho studiato e perché solo così il mondo apparirà domestico, abbordabile». Questo rimpicciolimento degli orizzonti, quando si inizia ad andare in giro, lo percepisci sin dai primi viaggi, complice l’aereo, che ha stravolto da tempo il concetto di spostamento, intendo quello antico, quando, per raggiungere un luogo, bisognava dedicare tempo, se non la vita intera.
Arrivare in Messico o in India, comodamente seduto e in qualche ora, ribaltò la mia idea di irraggiungibilità, facendomi ricredere sulle “distanze siderali” e su quanto non fosse poi così estesa, come avevo creduto un tempo, la Terra. Lo so, era una percezione drogata dal volo, ché in realtà era vero che arrivavo finalmente dove prima solo i libri di geografia mi avevano condotto, ma giungevo anche grazie a quella “sostanza” moderna che è il trasporto veloce, così come gli intellettuali dei primi del Novecento si facevano trasportare dalle droghe psichedeliche in terre mentali sconosciute, dalle quali tornavano affaticati perché raggiunte con l’aiuto di un accelerante psicotropico. Fu così che negli anni la Terra diventò per me un libro tascabile che sfogliavo con piacere e qualche sorpresa, e che quel lungo periodo da viaggiatore rese bonsai riducendo in quarti il gigantesco.
Ma, dal momento che la vita riserva sorprese, ecco apparire, con la pandemia (dove l’unico a viaggiare veloce è il virus), un ritorno alle origini, un déjà-vu di adulto che rivede i pensieri della propria infanzia riaffiorare dall’inconscio: il mondo, da un anno, è tornato immenso e impraticabile, nuovamente oggetto di desiderio e fonte di nostalgia, soprattutto per coloro che, prima del Covid, giravano freneticamente su quel mappamondo trasformato in gadget quotidiano. Ora è nuovamente tutto lontanissimo; sogno luoghi lontani per raggiungere i quali non esiste aereo, visto che le macchine volanti sono tristemente a terra da quando nessuno osa più sfidare jet lag e cambi di clima innaturali. Così, come nel film Ritorno al futuro, mi ritrovo all’epoca dei miei dieci anni, teso a osservare un orizzonte che oggi, nuovamente come allora, sembra irraggiungibile.
Chi viaggiava è fermo, e io con loro, e allora la mia stanza torna a essere l’aeroporto della mente quando mi scorgo a pensare ai luoghi dove mai sono stato più ancora di quelli che ho già visto, perché è così che si ricompone il sentimento che provavo da bambino, lucidando nuovamente l’immaginazione (che si nutre di proiezioni e aspettative, non di nostalgia). D’altronde partire, tornare, godere di quello stare in mezzo – che è spostarsi stando fermi, come accade in volo – è ben riassunto in questa frase di Aldous Huxley che sapeva perfettamente che in fondo si viaggia solo per trovare il proprio io: «Alcuni non scoprono mai coscientemente i loro antipodi. Altri fanno un atterraggio di fortuna. Eppure altri (ma sono pochi) trovano facile andare e venire a loro piacimento».