di Riccardo Morri
Come l'utilizzo distorto delle mappe può aver influenzato la percezione delle elezioni americane
La frequenza con la quale si è ricorsi alla cartografia per raccontare le previsioni e i risultati delle ultime elezioni negli Stati Uniti probabilmente è stata inferiore solo alla frequenza con la quale ogni giorno si attinge al linguaggio della geo-graficità per raccontare, comprendere e gestire la pandemia. Ma come sempre una mappa dice molto, eppur non dice tutto. Tutte queste rappresentazioni cartografiche – a prescindere dal livello di precisione tecnica, di accuratezza grafica e qualità estetica – sono “discrezionali” come lo sono tutte le rappresentazioni. Una consapevolezza da tenere sempre a mente per non dimenticare la stretta relazione tra forme di rappresentazione ed esercizio del potere, specie in funzione della forza di modellare la realtà che la cartografia, nutrendosi della retorica dell’oggettività, è in grado di dispiegare. Tuttavia, l’accessibilità e quindi l’universalità del codice cartografico presentano notevoli problemi di fraintendimento proprio quando queste rappresentazioni vengono del tutto, come quasi sempre avviene, decontestualizzate dalla realtà che pure dovrebbero raccontare e aiutare a rendere intelligibile. Nel corso della campagna elettorale statunitense quest’uso strumentale della cartografia ha prodotto esiti drammatici, cercando di predeterminare ex ante e di riconfigurare ex post l’espressione della volontà popolare e ponendo sotto forte pressione gli stessi meccanismi democratici che tale espressione consentono e garantiscono.
Lo racconta il geografo statunitense John Agnew in un articolo pubblicato sulla rivista dell’Aiig, Ambiente Società Territorio. «Il dibattito politico sulle recenti elezioni presidenziali americane è stato dominato da due narrazioni geografiche. Nella prima, gli Stati americani vengono considerati come “appartenenti” a uno dei due principali schieramenti politici (rosso-Repubblicano vs. blu-Democratico). Nella seconda, si mette in evidenza la dicotomia tra gli ambienti rurali, conservatori e reazionari, e quelli urbani, dinamici e cosmopoliti. Per capire i risultati delle elezioni presidenziali americane, bisogna andare al di là delle sole categorie socio-demografiche (uomini/donne, giovani/anziani, neri/bianchi), analizzando il contesto geografico in cui si è votato». Secondo Agnew «l’analisi geografica del voto del 2020 suggerisce così una narrazione alternativa, in cui le dimensioni suburbana e regionale assumono grande importanza nel determinare l’esito del voto. Con l’intento di ripartire equamente i diritti delle maggioranze e delle minoranze del Paese, le istituzioni americane del XVIII secolo diedero infatti maggior peso agli Stati più piccoli e meno popolati e a quelli del Sud, dove l’economia schiavista sopravvisse fino alla Guerra Civile e dove si contarono addirittura gli schiavi per il calcolo dei seggi di ciascuno Stato alla Camera, sebbene questi non potessero votare. A influenzare le votazioni del 2020 negli Stati Uniti è stato più il luogo di residenza degli elettori che la forza elettorale dei candidati su scala nazionale». «In sintesi – scrive Agnew –, l’esito delle elezioni presidenziali del 2020 non è stato deciso nelle città o nelle campagne, ma nei sobborghi delle principali città dei tre Stati in bilico».