Una foto, una storia. Quanti scrittori innamorati di Procida

Procida, Capitale italiana della cultura 2022, è stata sempre amata dagli scrittori, da Giuseppe Marotta ad Alberto Moravia, che ne scrissero per le riviste del Touring Club Italiano

«Se Capri è isola che vi fa impazzire, Procida è l’isola a cui si vuole bene». Ne era convinto Giuseppe Marotta, letterato napoletano trapiantato di malavoglia a Milano che nel 1948 scrisse un lungo reportage sull’isola campana per le Vie del Mondo. Uno dei tanti articoli dedicati alla futura Capitale della Cultura italiana 2022 e pubblicati dalle riviste del Touring Club Italiano in oltre un secolo. Il primo, che risale al settembre del 1913, illustrato con foto dei pescatori di cefali e della vita antica dell’isola, è scritto da Elena Trompeo. Un altro esce nel 1939, in pieno fascismo «grazie ai cui solerti provvedimenti gli isolani hanno ottenuto un molo per l’attracco dei piroscafi». È firmato da Ernesto Murolo – padre del più famoso cantautore Roberto –, poeta e paroliere di diverse arie nell’epoca d’oro della canzone napoletana, ed è dedicato più a Ischia che a Procida.

Ma il più ispirato in assoluto è quello di Giuseppe Marotta. Diventato famoso l’anno precedente grazie a una raccolta di racconti, L’oro di Napoli – da cui poi Vittorio De Sica ricaverà un film a episodi altrettanto famoso interpretato da Sophia Loren, Totò, i fratelli De Filippo...–, Marotta è romantico al limite dello sdolcinato nel decantare Procida e il mare che la separa da Napoli. Lo fa a colpi di strofe di canzonette napoletane, «le uniche che lo hanno veramente capito». Del resto «queste piccole terre si separarono chissà quando da Napoli, al solo scopo di desiderarla e appartenerle maggiormente». Per lui Procida è «leggera e morbida, galleggia, salperebbe anzi se affetti antichi e tenaci non l’incatenassero a Napoli». Anzi, «vecchissime canzonette vedono, nel fatto che la piccola città di Procida sorga proprio di fronte a Napoli, motivi sentimentali. Dicono cioè che Procida e Napoli fanno l’amore». Peccato che l’isola sia così densamente abitata, si rincresce Marotta, per cui «Procida e Napoli non possano baciarsi, troppi testimoni». Così chi la guarda al tramonto dovrebbe imparare la loro lezione di pudore «e imparare ad arrossire». L’articolo di Marotta è un crescendo elegiaco: «Vigneti, oliveti e agrumeti si fiancheggiano nell’isola che Dio fece con il miglior verde e il miglior azzurro che gli vennero sotto i pennelli». Un’esagerazione? Forse. Di certo quello di Marotta è un amore genuino. «Vorrei possedere una casetta sul mare di Procida» confessa alla fine. «Che ci stessero i pochi libri che amo, il mio tabacco, i miei pensieri e io».

Di Procida scrisse anche Alberto Moravia. Il suo testo, uscito sulle Vie d’Italia nel 1960, apparteneva a una serie, Questa nostra Italia, che lasciava libertà agli scrittori di raccontare il Bel Paese. Moravia frequentava l’isola da anni, vi era arrivato all’inizio della seconda guerra mondiale in compagnia della moglie Elsa Morante, in fuga dal conflitto. Ci tornò spesso e volentieri, non di rado prendendo alloggio all’Albergo Eldorado. La Procida che descrisse il romanziere romano è un’isola la cui vista «da lontano è senza dubbio orientale, di un Oriente da Mille e una notte, che ci si stupisce di ritrovare così intatto». Eppure questa è Procida: «isola del golfo di Napoli, dalla bellezza ancora sconosciuta (...). La case di cento colori pallidi e leggiadri, strette le une alle altre, con le facciate tutte terrazze, poggi e scale, guardano a una ripa su cui tirata in secco sulla sabbia si allena una flotta di barche». Ma a parte la cartolina pittoresca dell’isola di pescatori dagli aspetti moreschi, Moravia sembra attratto più che altro da quello per cui l’isola era più nota all’epoca, «il suo carcere». «A Procida, a quanto dicono, vengono rinchiusi solo criminali condannati a pene non inferiori ai vent’anni, dunque per delitti molto gravi». Mentre la circumnaviga non riesce a staccare gli occhi dalla mole del “bagno penale” che si trova sulla rocca non molto alta. «D’istinto vien di pensare a impossibili quanto romantiche evasioni, quasi per un timore anticipato di avere un giorno a trovarsi in condizione di doverle tentare», scrive. Mentre la barca fila «distinguo i prigionieri arrampicati sulle inferriate (...) che ci salutano con cenni delle mani». Del resto, ammette Moravia, «al solito la prigione esercita una sua malinconica, ossessiva attrazione». Prigione in cui Marotta avrebbe voluto farsi rinchiudere volentieri, pur di rimanere legato alla sua «fidanzata del mare».

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