Controcanto. Vigevano di Bramante e Leonardo

Franco Spuri Zampetti

Le tracce leonardesche e del Bramante

«Ogni domenica mattina c’è passeggio sotto i portici, dalle undici all’una, su e giù da un capo all’altro. Ogni tanto si va in su, sulla via del Popolo, la strà del Re buono e si arriva fin in piazza Fiera, quindi ritorno in piazza. Intervallo a mezzodì: si va a sentire l’ultima Messa in Duomo...» Lucio Mastronardi, Il calzolaio di Vigevano, Einaudi, 1962.

La Guida Rossa Lombardia, così attenta nella descrizione di Vigevano all’interno della cerchia ludoviciana, entro cui si incastona Piazza Ducale, non ha rispetto per la città borghese, sorta dopo l’Unità d’Italia: «Segue per oltre mezzo secolo, un’espansione urbana quasi priva di struttura (...) Solo a ridosso del terzo millennio il nuovo Parco Volta e la sistemazione dei musei (...) contribuiscono a ridare senso civile alla città». Delle mura di Ludovico il Moro che circondavano la Corte Ducale non resta altro se non la memoria della via del Terraggio con il terrapieno, nudo dei mattoni che lo ricoprivano. All’interno del perimetro divenuto ideale, la via carraia che saliva al Castello non esiste più da oltre trecento anni, demolita da Juan Caramuel y Lobkowitz, vescovo nella Lombardia spagnola, già difensore delle comunità cattoliche della Boemia e delle Fiandre e che voleva la piazza a servizio della chiesa barocca di cui aveva disegnato la facciata: eterogenesi dei fini che si desume dal distaccato linguaggio architettural-descrittivo della Rossa, inseparabile compagna di viaggio: «in questo modo lo spazio cambia significato urbanistico e da corte  visibilmente dipendente dal Castello diventa sagrato della chiesa».

I gradini spogli della stretta volta, sotto i portici, che salgono alla Torre del Bramante, con la sua cupoletta barocca verderame, non rendono la centralità di quella meraviglia della ingegneria del rinascimento che è la strada coperta, dal selciato di ciotoli di fiume levigati e connessi, sotto le capriate di castagno, e le pareti laterali sguanciate da cui si protendono gli spicchi rettangolari di luce, a formare specchio alle feritoie per i tetti sottostanti e sulle strade che si intersecano nel percorso inferiore. Al termine, il portone sormontato dagli spazi aperti alla luce dei perduti bolzoni del ponte levatoio. Bramante e Leonardo erano stati precettati da Ludovico il Moro, signore del ducato più ricco del mondo di allora, non per lavorare insieme, ma per completare la grande passione di un uomo colto di dare splendore alla corte in cui si diceva che fosse nato. Al cromatismo della decorazione elegante sopra i portici della piazza, quasi conventuali, accompagnava, a distanza di poche leghe, il progetto della coltivazione del gelso per la produzione della seta che avrebbe poi, nel giro di un secolo e mezzo, reso la Lombardia spagnola più ricca dell’intera penisola iberica. Leonardo, ingegnere ducale, che aveva costruito la fitta rete dei canali navigabili che portavano a Milano tutti i materiali di costruzione necessari allo sviluppo della città, progettava i canali che dal Ticino e dal Terdoppio rendevano fertili i terreni aridi a sud della corte lomellina. Ancora oggi le loro acque cristalline muovono le erbe del fondo sabbioso in lunghe barbe ondeggianti sotto i ponti militari di moderna semplicità. Le sue macchine idrauliche, sempre più elaborate dalla concezione originale di Leon Battista Alberti, davano la velocità necessaria per i mulini e, con la necessaria scalarità, il ritmo di caduta sulle ruote e sui magli. Cinque gelsi per pertica milanese, settantacinque per ettaro era la misura che dava il Duca, detto il Moro per il colore della pelle o forse per il moròn (il frutto nero del gelso, in dialetto, ndr). E la Sforzesca è rimasta lì, con i quattro colombaroni agli angoli del quadrilatero e il dente di sega, fatto di mattoni a rilievo, a ricordare ovunque che il serpente dei Visconti era sempre presente a fianco delle aquile degli Sforza, seppure ancora per poco.

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