di Tino Mantarro
Campo Tures, Bandiera Arancione Tci, è l’esempio di come si possano coniugare attenzione all’ambiente, qualità della vita e attrattività turistica. Un reportage per raccontare la storia di questo borgo altoatesino.
Se l’osservi dall’alto dei prati di Acereto, Campo Tures è davvero un bel vedere. Sotto gli occhi si allarga una vasta piana verdeggiante, una scacchiera di campi pronti a essere seminati e un ordine a tratti casuale di grandi case, tutto dominato dal grigio e austero Castel Taufers con le sue persiane bianche e rosse. E poi ancora, il filo azzurro del torrente Aurino che attraversa il paese, la corona di campanili rossi e slanciati disseminati tra le frazioni. Sui versanti delle montagne che chiudono la valle, fitte macchie di larici e abeti coronano i masi di mezza costa e i prati di un verde intenso con le immancabili mucche; sullo sfondo, il panettone del Plan de Corones con qualche rimasuglio di neve. Anche vista dal basso Campo Tures, uno dei due Comuni Bandiera Arancione dell’Alto Adige (l’altro è Vipiteno), non è affatto male. Specie se ti capita di parlare con chi lavora nel turismo o in agricoltura di temi come ambiente e lavoro, futuro possibile e scelte concrete per lo sviluppo del territorio. I discorsi ruotano sempre intorno ad alcuni concetti base: passione e radici, salario equo per i lavoratori e giusto prezzo per i prodotti, rispetto della natura e sostenibilità a 360 gradi. E allora si torna a casa con l’idea che Campo Tures sia un mondo dentro un altro mondo, un pezzetto d’Italia dove, per alcune cose che riguardano “il futuro che vorremmo”, siano decisamente più avanti.
Come spesso accade essere avanti oggi significa essere stati indietro ieri. Con chiunque parli tutti dicono che fino agli Settanta qui la vita era piuttosto dura. C’era stata una prima fase di sviluppo turistico a inizio Novecento legata alla ferrovia che arrivava da Brunico, ma è tramontata nel Dopoguerra. «Si viveva di un’agricoltura di montagna, che rendeva poco, giusto per la sussistenza. Rispetto ad altre vallate altoatesine il maso chiuso (l’istituto giuridico tipico di queste valli che preservava l'indivisibilità della proprietà agricola al momento della successione, ndr) garantiva la sopravvivenza delle famiglie, ma nulla di più. Così i figli che non ereditavano il maso emigravano» spiega Martin Pircher, inventore del locale Festival del formaggio. Poi è arrivato il turismo e le cose sono cambiate. «Quest’anno festeggiamo 50 anni del primo impianto di risalita sullo Speikboden, con cui anche la Valle Aurina si è aperta al turismo invernale» racconta Martin Unterweger, quarantenne direttore del comprensorio sciistico. «Siamo un comprensorio piccolino, con impianti molto moderni che servono 50 chilometri di piste: non tanti, ma abbastanza per chi vuole sciare senza annoiarsi» prosegue. Negli anni al turismo invernale si è affiancato sempre più quello estivo, persone che vengono in questa vallata laterale della Val Pusteria attratte da quel che qui abbonda: la natura. Del resto gran parte del territorio di Campo Tures ricade dentro i confini del Parco naturale Vedrette di Ries-Aurina. «Ma anche se non fosse parco, sarebbe tenuto bene lo stesso» sottolinea Mario Larcher, guida di mezza montagna che accompagna i turisti in passeggiate naturalistiche.
«Fortunatamente qui la sostenibilità, quella ambientale, è selbstverständlich, come dite voi?». Scontata. L’assessore Stefano Mariucci è soddisfatto nel raccontare quel che è stato fatto negli anni a Campo Tures, che già nel 2008 vinse il Premio europeo per il recupero dei borghi. «La sostenibilità ambientale non deve essere un sovrapprezzo che paga chi viene qui, ma la base di ogni nostra attività. Anche perché il turismo è un’attività che consuma tantissime risorse energetiche e ambientali. Se non è sostenibile porta un danno al territorio», aggiunge Katharina Willeit, che nonostante i suoi 35 anni da dieci dirige il locale ufficio turistico. Se si ristruttura un hotel, neanche a dirlo, diventerà sostenibile e a impatto zero. Un’idea che ultimamente sembra si stia affermando quasi ovunque, ma che a Campo Tures sembrano aver compreso con qualche decennio d’anticipo. «Dagli anni Settanta il Comune è proprietario di una sua centrale idroelettrica e, fatto raro, di tutta la rete di distribuzione dell’energia. E non è stato necessario costruire una diga, che avrebbe impattato sul paesaggio: la centrale sfrutta un salto del torrente dove ci sono le cascate di Tures e produce energia in eccesso» prosegue Mariucci. Come se non bastasse il Comune ha installato tre impianti fotovoltaici su altrettanti edifici comunali e ha inaugurato una centrale di cogenerazione alimentata con il legname ottenuto dalla pulizia dei boschi che fornisce acqua calda a tutto il paese. «Ai contadini paghiamo un prezzo leggermente più alto di quello che pagheremmo se prendessimo il legname altrove, ma così riusciamo a mantenere pulito il nostro patrimonio boschivo con costanza, senza dover fare interventi straordinari» aggiunge.
Di straordinario invece sembra esserci il rapporto virtuoso che in questa piccola comunità – circa 5mila abitanti – lega turismo, sostenibilità ambientale e contadini, veri custodi del paesaggio. «Abbiamo un vantaggio: qui l’ambiente naturale è stato conservato dai contadini perché dava loro da vivere. Con il passaggio all’economia turistica però gli agricoltori non sono scomparsi, ma hanno integrato il loro lavoro nei campi con l’accoglienza» spiega Unterweger. In inverno decine di loro sono impiegati nel comprensorio sciistico, in estate tutte le malghe in quota offrono ospitalità, anche solo per uno spuntino con speck, pane e birra, mentre ogni maso ha qualche stanza o appartamento da affittare. Naturale allora che lo sviluppo turistico punti al mantenimento di quest’equilibrio tra elemento umano e ambientale. Poi certo, gli operatori del territorio ci mettono del loro. «Se vuoi fare funzionare la funivia in estate devi far sì che chi sale a 2mila metri abbia qualcosa da fare. Così negli ultimi anni stiamo attrezzando spazi e creando programmi per i bambini: dalle giornate al maso alle avventure con “gli elfi”, fino al micro zoo in quota, dove i dipendenti portano i loro animali, capre, maiali, vitelli» prosegue Unterweger. Accanto a questo da quasi 30 anni ogni estate quattro dipendenti del comprensorio si occupano di mantenere i sentieri raggiungibili con la funivia e di tracciarne altri. «Facciamo tutto questo non solo pensando agli ospiti, ma soprattutto avendo in mente la soddisfazione di chi vive qui. Ogni anno qualche piccola aggiunta, tanta manutenzione, ma senza stravolgere il territorio. Perché alla fine quel che conta è investire in qualità più che nel numero degli arrivi» spiega Willeit. Ai turisti quest’idea piace, di anno in anno quelli che ritornano quasi fosse un appuntamento fisso sono sempre di più. «A chi pernotta diamo una tessera per usare gratis tutti i mezzi pubblici dell’Alto Adige. E a giugno e settembre anche l’accesso alla nostra funivia, in modo che lascino in hotel le auto e le malghe non si trasformino in parcheggi disordinati» aggiunge Willeit. Neanche a dirlo, tutte le frazioni sono collegate dai bus ogni ora, e ogni 15 minuti c’è un mezzo per Brunico dove si può prendere il treno.
Certo la qualità ha il suo prezzo. «Ma se guardiamo solo al prezzo e non al valore allora è un problema. La sopravvivenza dei piccoli contadini, quelli che praticano un’agricoltura estensiva e tengono la montagna come un salotto, si garantisce solo pagando il giusto prezzo», spiega Stefan Fauster, che con la moglie gestisce l’hotel Drumlerhof, in pieno centro a Campo Tures. Fauster ha alzato l’asticella della sostenibilità: nella sua azienda ha introdotto il Bilancio del bene comune. «È un processo che pone al centro di tutte le nostre scelte il rispetto dell’essere umano e dell’ecosistema, basandosi su comportamenti cooperativi, solidali, ecologici, democratici e inclusivi» spiega. Il che non vuol dire che l’albergo diventa una specie di comune hippy alternativa. Rimane un quattro stelle moderno e ricercato, con un ottimo ristorante dove però l’edificio è a consumo energetico zero, il menù locale – «non nel senso che è a chilometro zero, che sarebbe impossibile, ma che scegliamo materie prime di piccoli produttori selezionati e, se non ci sono, cambiamo piatto» – e i rapporti tra dipendenti sono improntati al servizio del bene comune e non del profitto personale. «Tutto è collegato, siamo una comunità umana e naturale, ci dobbiamo sostenere e dobbiamo continuare a seminare» spiega Fauster. Dove seminare non è metaforico, ma fisico: con altri ristoratori del paese ha preso in affitto mezzo ettaro di terreno nella piana. «Con il progetto Taufrisch sosteniamo la biodiversità, perché altrimenti lì coltiverebbero solo granturco» spiega. «Il nostro ruolo di albergatori è importante perché siamo dei moltiplicatori di queste idee sul territorio e con i clienti». Clienti che tre volte a settimana accompagna nel bosco, per una immersione nel verde per ricostruire il rapporto con la natura. «Perché la sostenibilità va vissuta, non deve essere commercializzata come se fosse un prodotto come un altro» conclude.
Proprio come la vive Anneres Ebenkofler, padrona del Natur Hotel Moosmair nella frazione di Acereto. Anneres da anni si dedica allo studio delle erbe alpine e dei loro benefici sul corpo, erbe del bosco che ben prima che diventasse una moda ha introdotto nei menù. «I cuochi all’inizio erano scettici, ora si sono convinti. Del resto non facciamo altro che tornare alle nostre radici, i nonni facevano così, noi abbiamo solo perfezionato quel sapere» spiega. Alla sua cultura contadina è così legata che in questi mesi di chiusura al piano interrato dell’hotel ha allestito un museo del maso che ne racconta la storia. Come Stefan Fauster anche lei intende il suo mestiere come una promozione del territorio, così quando parla senti che non è un marketing di circostanza buono per vendere ogni cosa, ma pura passione. «Non saprei dire se quel che facciamo è economia circolare o meno, ma per noi è importante sostenere i piccoli contadini e farli conoscere». Così ti presenta la sua vicina, Claudia, che con il marito Roland Eder tre anni fa ha aperto Moarhof, piccolo caseificio specializzato in Graukäse, il formaggio grigio della valle Aurina. «È un formaggio povero di grassi che va molto di moda. Ma sai perché ha così pochi grassi? Perché è sempre stato un formaggio di povera gente. Qui rendeva il burro, per cui la maggior parte del latte veniva usato per fare burro da vendere e con quel che restava si produceva questo formaggio che in cucina si usava con tutto» racconta Pircher. Claudia è austriaca di Seefeld, nella vita precedente lavorava nel turismo un po’ caciarone che contraddistingue la stagione invernale dalle sue parti, adesso ha dieci mucche e ha imparato a fare il formaggio. «Da me a Seefeld contadini non ce ne sono più, ma io ho sempre voluto sposarne uno e fare questa vita qui» racconta. Dove “questa vita qui” è fatta di sveglie presto e mani segnate, non è comoda ma è tutto fuorché una vita all’antica: i suoi formaggi si comprano online e finiscono nei ristoranti stellati, mentre al caseificio – tre stanze sotto il maso – si organizzano degustazioni, ma i primi acquirenti vengono dal paese.
«In questi mesi senza turisti abbiamo resistito proprio perché i paesani vengono a comprare da noi», conferma il 27enne Günni Volgger del caseificio Goasroscht, che tradotto suona come “le capre rilassate”. Se siano davvero rilassate andrebbe chiesto alle sue 50 bestie che per otto mesi vengono munte e per quattro sono lasciate a riposo per allevare i capretti. Non certo uno sfruttamento intensivo. Anche Günni non viene da una famiglia di contadini, suo padre però aveva una passione per le capre e un’idea: aprire un micro caseificio lungo la ciclabile che porta alle cascate di Campo Tures. Sette anni fa decidono di provare. «Ho iniziato molto free-style, sono diplomato all’alberghiero e avevo qualche idea, i casari del posto mi hanno aiutato perché qui se apre un nuovo caseificio tutti dicono, “meno male uno nuovo”» racconta Günni. Oggi è l’unico a produrre formaggi di capra, mai stati la specialità della zona. «In valle ormai ci sono una dozzina di caseifici, ognuno si è specializzato e cura la sua nicchia» aggiunge Pircher. Lui da 20 anni organizza il Festival del formaggio legato a Slow food: laboratori, assaggi e oltre 90 espositori da tutta Europa. Il successo del Festival ha fatto da traino per un cambiamento della cultura contadina, trasformando la Valle Aurina nella valle del formaggio. «Grazie al Festival tanti, contadini e non solo, hanno capito che ci si poteva emancipare dalla mera produzione di latte da conferire alle cooperative e fare qualcosa di diverso, non per arricchirsi, ma per rimanere a vivere qui, lavorando in modo sostenibile e dignitoso, senza far nulla di straordinario, ma con soddisfazione», spiega. Vero, allora la straordinarietà di Campo Tures sta proprio nel far sembrare semplici e scontate idee e iniziative che altrove sembrano impossibili.