di Tino Mantarro | Foto di Lorenzo de Simone
Dalla Liguria a Zara, dalla Dalmazia ai Colli Euganei. È la rocambolesca bicentenaria storia della famiglia Luxardo, molto vicina al Touring Club Italiano
La storia è sempre una mappa, e i suoi percorsi sono spesso circolari. Anche se in questa storia il cerchio non è perfetto, per chiuderlo mancano più o meno 400 chilometri, la distanza che separa Torreglia, in provincia di Padova, da Santa Margherita Ligure, dove tutto ebbe origine. La storia è quella di una famiglia, i Luxardo, ma è anche la storia di un’azienda di liquori e la storia del confine orientale italiano negli ultimi due secoli, quelli della Luxardo stessa, fondata nel 1821. Un nome che sulle prime magari non dice niente, ma se si vede una bottiglia verde impagliata, una pubblicità un po’ liberty o il logo bianco su campo rosso, allora ci si ricorda: «Ah...Luxardo, il maraschino». Dove il maraschino è un liquore a base di marasche, varietà di ciliegie aspre tipica della costa dalmata intorno a Zara. «Un liquore di cui il nostro antenato, Girolamo Luxardo, perfezionò la ricetta che prevedeva l’infusione delle marasche nell’alcool. Lui iniziò a distillare l’alcool dalle ciliegie avviando la produzione industriale» racconta Franco Luxardo, quinta generazione al lavoro tra alambicchi e bolle di spedizione.
La vita dei Luxardo ha sempre avuto a che fare con mappe e viaggi, un po’ perché il destino loro malgrado li ha costretti a muoversi, un po’ perché il maraschino è sempre stato un liquore a vocazione internazionale. «Oggi esportiamo i nostri prodotti in 91 Paesi. Il 1° gennaio del 1961, quando ho iniziato a lavorare in azienda, erano molti meno», sorride Franco Luxardo. «Sono 61 anni che vengo in fabbrica: anche se ero il figlio del padrone ho iniziato dal basso perché dovevo imparare, e poi mi sono dedicato alla commercializzazione, specie all’estero» racconta. L’irrefrenabile voglia di viaggiare la deve alle letture di quand’era ragazzino. «Sono nato a Zara nel 1936, proprio nel palazzo dell’azienda. Ricordo nitidamente che negli anni Cinquanta a casa trovavo Le Vie d’Italia e le riviste Touring, che mi fecero innamorare del viaggio. Quelle, e i francobolli che mi mandava mio padre durante la guerra: l’avevano richiamato e costretto a lavorare all’ufficio censura visto che sapeva bene le lingue». Un legame antico, quello tra Touring Club Italiano e Luxardo: su Le Vie d’Italia del dicembre 1932 compare la prima pubblicità dei «Buoni liquori nazionali Luxardo-Zara. Maraschino, Triple Sec e Cherry Brandy». Oltre ad amare la geografia e le mappe – «ai clienti americani che venivano in Europa ho sempre regalato mappe e atlanti Touring, volevo fargli vedere come era una carta fatta bene, non quelle cose che usavano loro, che ti perdi subito» – Franco Luxardo ha una genuina passione per la storia. «Quando è uscita la Guida Verde Tci Jugoslavia ho subito scritto per far correggere degli errori nel racconto della terra dove sono nato, la Dalmazia» spiega. Ma soprattuto Franco Luxardo ha un’innata capacità di raccontare la storia dell’azienda di famiglia, che ben presto diventerà il cuore del museo d’azienda allestito al lato della fabbrica di Torreglia. Una di quelle storie che potrebbero ben iniziare con “C’era una volta”.
C’era una volta Girolamo, capostipite dei Luxardo del maraschino, nato il 29 settembre del 1784 a Santa Margherita Ligure. «Era un furbacchione terribile. Undicesimo e ultimo figlio di una famiglia di mercanti, un animo inquieto che aveva preso una sbandata per Napoleone e l’impero, al punto che voleva andare a combattere con le truppe del Còrso in Russia, ma non venne arruolato: troppo basso, solo 1.47. Fu la sua salvezza, perché iniziò a brigare per cercare il suo posto nel mondo. Commerciava in cordami ma non disdegnava altre compravendite e alla fine approdò a Zara, allora Impero Asburgico, fiutando un affare con i coralli» racconta. I coralli dalmati non erano questo affare, ma l’intraprendente Girolamo aveva già annusato un altro affare: il maraschino. «Il liquore era una tradizione locale, nata nei conventi e ai tempi prodotto in una dozzina di piccole aziende. Lui aveva capito che migliorando la produzione ci sarebbe stato mercato» prosegue Franco, mostrando il quadro che ritrae l’antenato. Ricorda il conte Cavour, personaggio con cui condivide la perseveranza, perché Girolamo tra prove di distillazione e altri esperimenti, tanto si industriò che nel giro di pochi anni ottenne da Vienna il privilegio imperiale: il diritto esclusivo a produrre il maraschino secondo la sua ricetta. Fu l’inizio del successo: di lì a breve il maraschino Luxardo arrivò in tutte le corti reali e le pasticcerie d’Europa. Nel frattempo Girolamo riuscì a farsi nominare vice-console del Regno di Sardegna in città, mantenendo così la cittadinanza sabauda. Seguirono decenni di successi. «Abbiamo testimonianze di esportazioni in Cina e in Giappone: negli anni Sessanta dell’Ottocento il maraschino era forse il primo spirito ad arrivare da quelle parti» racconta. «Quando Girolamo passò la mano non scelse il primogenito, ma il terzo, Nicolò: lo considerava il più abile tra i 15 figli. Era meritocratico, pensava fosse il più adatto ad assicurare la dote alle sorelle. Nel farlo impose una regola non scritta: mai lasciare spazio in azienda a generi e nuore, solo discendenti diretti». Regola che dura tutt’ora che sono arrivati alla settima generazione.
Come ogni storia che si ascolta come un romanzo anche quella dei Luxardo inanella successi e colleziona drammi, che poi sono quelli della storia inquieta dei Balcani nel Novecento. «Nel 1918 Zara divenne italiana, la mia famiglia era sempre stata un baluardo di italianità, due prozii erano stati grandi patrioti. Ma la città conservava una mentalità mitteleuropea, una tendenza all’esportazione nelle ex terre dell’Impero, sfruttando i vantaggi fiscali della zona franca» spiega. Furono anni di vertiginoso sviluppo, all’alba della guerra portarono la Luxardo a diventare la seconda azienda di liquori in Italia dietro la Sarti di Bologna. «Poi è arrivato l’8 settembre e il patatrac». La città venne bombardata, la fabbrica distrutta, la famiglia dispersa. «Io in un sanatorio nelle Dolomiti, mio padre militare richiamato a Bologna, mia madre a Udine. Gli zii mandarono avanti la fabbrica finché fu possibile, ma con l’avanzata degli uomini di Tito scapparono in barca risalendo la costa. Non arrivarono mai in Italia» ricorda. E qui il racconto si fa epopea, si sovrappone alla storia della Dalmazia italiana. «Due dei fratelli furono uccisi, uno affogato, l’altro fucilato. L’azienda fu requisita. Mio padre si ritrovò in Italia con tre famiglie da sfamare, un’azienda famosa e un dubbio su cosa fare: aprire subito o aspettare tempi migliori?». Decise di aprire, la fabbrica venne inaugurata il 10 febbraio 1947 a Torreglia, sui Colli Euganei. «Arrivammo da queste parti perché, secondo un professore di Firenze che aveva fatto uno studio sulle varietà di marasche che usavamo, qui c’era il terreno migliore dove far crescere gli alberi». Suo padre Girolamo era un commerciale e non sapeva con esattezza le ricette, ma il tempo alle volte è galantuomo. «Si chiamava Carlo Bianchi, era bloccato a Zara. Nel 1948 dovette optare se restare in Jugoslavia o andarsene: scelse l’Italia. A lui mio zio Pietro aveva affidato le ricette originali. Ogni esule aveva diritto a una valigia e un mobile, il signor Carlo nel mobile creò un doppio fondo dove nascose le nostre ricette. E appena arrivato in Italia ce le portò: “Queste te le manda tuo fratello” disse a mio padre». Fu un po’ il secondo inizio della Luxardo, azienda fondata a Zara nel 1821 e rinata in Veneto nel 1947.
Sarebbe la giusta conclusione di un romanzo, se non fosse che negli anni Sessanta si aggiunge un’altra puntata. «Nel 1965 un gruppo di amici mi invitò in vacanza in Dalmazia. Nessuno di noi era mai tornato da quelle parti da cui avevamo avuto solo cattive notizie. Sono andato al mare, ma testa e cuore volevano tornare a quel rettangolo di terra che è Zara. Da poco frequentavo una ragazza americana, Suzanne, che poi è diventata mia moglie: finita la vacanza ho deciso di vivere quell’emozione con lei e visitare le nostre tombe. Sul mio passaporto c’è scritto Luxardo Franco nato a Zara, la polizia jugoslava fece due più due. La mattina chiamò in albergo un signore che mi invitò a visitare la fabbrica, la nostra fabbrica, che nel frattempo era stata nazionalizzata e si chiamava come oggi, Maraska. Quel signore, il direttore, mi accolse con tutti i salamelecchi nel suo ufficio al primo piano, che era la camera da letto di mia madre, quella dove sono nato; la sala della sua segretaria era la mia stanzetta» racconta. «Magnificò la sua azienda e chiese se volessi vedere la parte produttiva. Accettai. Quando entrai nel reparto si avvicinarono prima due, poi quattro, poi dieci operai. Mi accarezzarono il viso, facendo capannello, “Sei proprio tu, Franco”. Slavi o italiani poco importa, erano i nostri operai, mi avevano visto crescere. Quel giorno non hanno più lavorato». La storia, come le mappe, alle volte è circolare, non sempre il cerchio si chiude. Ogni tanto sì.