Valtellina. Sul sentiero di casa

Lorenzo De SimoneLorenzo De SimoneLorenzo De SimoneLorenzo De SimoneLorenzo De SimoneLorenzo De SimoneLorenzo De SimoneLorenzo De SimoneLorenzo De SimoneLorenzo De Simone

Su due ruote dal lago di Como a Bormio: seguire la ciclabile è il modo migliore per scoprire la provincia di Sondrio con una prospettiva e un ritmo diversi. Anche per chi ci è cresciuto

Quando cresci in una valle, non hai ancora l’età per la patente e il tuo unico mezzo di locomozione è la bicicletta non hai molte alternative: o segui il corso del fiume a scendere, oppure lo risali. Altro non c’è. O meglio, si potrebbero sempre scalare le montagne, quelle non mancano, ma bisognerebbe essere piuttosto in forma, e non è mai stato il mio caso. Sono cresciuto in Valtellina, anni prima che qualche amministratore illuminato disegnasse il Sentiero Valtellina, la ciclabile di 114 chilometri che seguendo l’Adda unisce Bormio con Colico, sul lago di Como. In mancanza della ciclabile pedalare lungo la Statale 38, l’unica trafficata arteria che come un filo di lana lega tutta la provincia di Sondrio senza obbligare allo zig zag per paesi e frazioni, era un’esperienza formativa. Per intenderci: un misto tra la scommessa letale e il rischio, concreto, di finire sotto un camion che trasporta acqua minerale. Qualcosa che toglie ogni piacere all’andare in bicicletta. Per cui in 40 e passa anni di vita non ho mai attraversato la mia valle alla velocità giusta per apprezzarla davvero, quella delle due ruote. Ora l’ho fatto. La Valtellina è un posto dove la geografia conta più che altrove. Inizia dove finisce il lago di Como, andando da Ovest verso Est è una della poche grandi vallate longitudinali delle Alpi e, forse per questo, per secoli è stata terra di passaggio di merci, persone e soprattuto eserciti. Grigioni, Spagnoli, Francesi, Austriaci: di qui sono passati tutti. I Grigioni ci sono rimasti tre secoli. Quelli che hanno studiato amano ricordare che geologicamente si trova sulla linea insubrica, all’incrocio dello zoccolo eurasiatico e quello africano, e – quasi che ne fosse il centro di gravità – è anche centro esatto della catena alpina. Cose studiate nei libri che riemergono alla memoria quando si inizia a pedalare a Colico, che del Sentiero Valtellina è la tappa di partenza, perché si è deciso di risalire l’Adda invece che discenderlo. Ma se quando devi prenotare ti propongono una bici elettrica che senso ha non approfittare? Torna utile per qualche deviazione montana.

Uscendo dai libri e guardando quel che si ha intorno, l’ingresso in valle incute timore. Non perché sia stretta, anzi. Piuttosto perché pedalando a livello del fiume, lambendo i canneti del pian di Spagna, una delle ultime zone umide della Lombardia, punto di passaggio nelle migrazioni di volatili, e lasciandosi alle spalle quel panettone verdeggiante che nasconde il possente Forte di Fuentes – bastione spagnolo per secoli a guardia dei territori del Ducato di Milano – all’altezza di Mantello riesci a vedere il punto esatto in cui le Alpi Retiche emergono in tutta la loro maestosità e ti sembrano, oggettivamente, vertiginose. Tu pedali in mezzo alla valle, a 300 metri d’altitudine, e le cime come niente superano i duemila. Sul versante orobico c’è il monte Legnone, un’austera piramide di 2.600 metri che è anche la prima vetta nella mia vita che a guardarla ho considerato bella. Sarà per questo che Walter Bonatti, l’alpinista che essendo bergamasco – come si dice qui – «l’era minga di noss», aveva scelto quel balcone vista lago, fiume e vallate, per costruire la sua ultima dimora. Se le montagne incombenti fanno da cornice costante, il Sentiero Valtellina in questa parte – il terziere di Morbegno, come dicono i “noss” – è praticamente in piano: sale impercettibilmente seguendo l’Adda, tra ponti che superano rogge, aree di sosta con provvidenziali fontanelle (alcune distillano acqua gasata!) e tavoli per picnic, cartelli che spiegano flora, fauna e storia umana della zona. Perché chi l’ha detto che pedalare debba essere solo un piacere fisico e non una forma di apprendimento? Per esempio, dal cartello apprendi che bastano 3,3 chilometri di deviazione per andare a curiosare che cosa sia quel campanile romanico che spunta nella boscaglia di castagni. È San Pietro in Vallate, quel che resta di un’abbazia cluniacense dell’XI secolo che per anni è stato il punto più distante in cui mi sia spinto nelle escursioni in bici. Poca roba, perché Morbegno – dove sono cresciuto – dista sì e no dieci chilometri, ma erano tra i pochi che si riuscivano a fare in sicurezza senza dislivelli proibitivi. Così mentre pedalo tra i residui campi di mais della bassa valle invidio non poco la variegata umanità che sfrutta la ciclabile in un giorno qualsiasi della settimana. Gente che corre, gente che cammina con il cane, ciclisti seri che sfrecciano, anziane signore con la graziella a velocità da passeggiata, un ragazzo che pranza all’aperto e due pescatori con stivaloni e canna che si avvicinano all’argine. Non credo esista un sondaggio in merito ma viene da dire che il Sentiero Valtellina è come una immensa palestra all’aperto, l’equivalente di un parco urbano per chi vive in una grande città, uno spazio di libertà.

Libertà anche di scoprire cose cui non hai prestato attenzione del territorio dove sei cresciuto, che non è solo una valle di banche e centrali idroelettriche (non c’è vallata laterale che non abbia una diga, lungo l’Adda ci sono almeno cinque sbarramenti). E neanche di chiese gigantesche e fuori scala per il numero di anime che devono accudire, chiese imponenti le cui facciate spuntano dai due versanti delle montagne perché la Valtellina è sempre stata una terra molto pia. È invece, man mano che ci si approssima a Sondrio, un territorio di vigneti eroici, aggrappati al pendio delle Alpi Retiche grazie a migliaia di chilometri di muretti a secco che costituiscono la base delle terrazze dove sono piantate le vigne. Un’opera di ingegneria antica quanto l’uso di coltivare la vite, che si riesce a osservare da vicino quando si arriva nel capoluogo. Deviando verso il Santuario della Sassella, o direttamente in città – città per modo dire, con 21mila residenti è il terzultimo capoluogo italiano per abitanti –, addentrandosi per Scarpatetti, il quartiere contadino con case di pietra scura e ballatoi in legno. Qui si trovano i vigneti Marsetti, un’azienda agricola urbana i cui filari arroccati sul fianco della montagna sembrano giardini tra le vie, mentre la cantina in una casa del Trecento è un incastro di spazi e botti degno del cubo di Rubik. Un lavoro eroico quello del vignaiolo valtellinese: oltre mille ore di lavoro per ettaro contro le cento di chi in Piemonte coltiva lo stesso vitigno, il Nebbiolo. Un lavoro duro che in parte è raccontato a Castel Masegra, baluardo medievale posto all’imbocco della Valmalenco. Per anni è stata sede del Distretto Militare, e solo chi aveva a che fare con visite di leva l’aveva visto da dentro. Oggi invece ospita il Cast, il CAstello delle STorie di montagna, museo “narrante” pensato per raccontare le “3A” della cultura montana: Arrampicata, Alpinismo e Ambiente.

Un buon punto di partenza per chi – essendo allenato o avendo a disposizione una bici elettrica – decide di prendere una deviazione del Sentiero e, fino a Ponte in Valtellina, percorrere il tratto ciclabile della Via dei Terrazzamenti. Un sentiero a mezzacosta sul versante retico che attraversa vigneti e paesi, come Poggiridenti, che nel nome portano iscritti la loro caratteristica principale: sono benedetti dal sole. Da qui si domina la valle, se ne osserva lo sviluppo lungo l’asse del fiume, con la ferrovia, la strada e i capannoni a contendersi i pochi spazi piani, si ammirano le Orobie fitte di boschi e si iniziano a vedere i meleti che fino a Tirano diventano la coltura dominante. Peccato oggi non ci sia tempo per fermarsi a Ponte in Valtellina, gironzolare tra i suoi palazzi nobiliari, ricostruire la storia dell’astronomo Giuseppe Piazzi – che scoprì Cerere, l’asteroide più grande del sistema solare – e mangiare pizzoccheri e “sciatt” in un paio di trattorie davvero di una volta, dove se provi a ordinare altro ti guardano male. Da qui si plana su Tirano, cittadina che i vacanzieri in automobile sfruttano giusto il tempo di un caffè, quelli in treno come punto di interscambio con il trenino rosso del Bernina e per me è sempre e solo stata quel posto dove facevano ottimi cannoncini nella pasticceria vicino all’Adda. E invece, per chi viaggia in bicicletta è una buona tappa dove sostare e, al mattino, prendersi il tempo per vedere il Santuario rinascimentale della Madonna di Tirano, passeggiare per le vie del centro con gli ultimi vigneti della valle che scendono in paese e un’atmosfera rilassata che già ricorda la Svizzera. Da qui il Sentiero Valtellina inizia a salire, nel senso fisico del termine. La valle si fa più stretta e ancor più verde, si ha come l’impressione di entrare in una dimensione più alpina. I piani del fondovalle spariscono, per via dell’ennesimo sbarramento a Sernio il fiume si fa quasi lago, l’acqua è di un verde smeraldo, riflette i salici e si riempie di canneti. Si sale, piano ma con costanza. I vigneti sono sostituiti dalle rocce, da quel che resta di imponenti castelli, o da centrali idroelettriche che sembrano cattedrali contornate da una selva di tralicci e alternatori. A Grosio ci si ferma perché si è stanchi. Ma anche perché c’è il Parco delle incisioni rupestri, un’altra di quelle cose che non avevo mai visto. Un’immensa roccia levigata, la Rupe magna, su cui sono incise figure antropomorfe del Neolitico e dell’età del Ferro rinvenute negli anni Sessanta, a significare che queste vallate alpine – la Valcamonica è appena aldilà – pur aspre e difficili, sono state abitate da sempre. Da Grosio bisognerebbe salire, superare gli austeri sanatori di Sondalo e quell’universo sottosopra della frana del monte Coppetto, che durante l’alluvione del 1986 devastò Sant’Antonio Morignone, prima di arrivare ai mille metri d’altitudine della magnifica contea di Bormio, al cospetto dello Stelvio. Ma piove, le nuvole basse ingolfano la valle ed è meglio far ritorno alla base. E poi, rifletto, anche a casa propria è bene lasciare qualche angolo inesplorato.

Lorenzo De Simone
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