di Barbara Gallucci | Chiara Goia
Dalla comunità di Olivetti a un futuro pieno di aspettative. Per tornare a essere avanguardia di una rivoluzione
Quanto è distante il concetto di comunità elaborato da Adriano Olivetti a Ivrea da quello di community lanciato 10mila chilometri più a ovest, nella Silicon Valley? Arrivare nella città piemontese in una grigia giornata invernale allontana climaticamente la California, ma c’è qualcuno che invece la ricorda e si allena in kayak nelle acque della Dora Baltea che attraversa il centro. Laggiù il surf, qui le canoe, per entrambi comunque la muta a proteggersi dal gelo. È necessario indossare guanti bianchi invece per sfogliare le foto dell’Archivio Storico Olivetti. Per scoprire Ivrea e il suo patrimonio questo è un buon punto di partenza. Qui conservano le stampe dei servizi fotografici realizzati per Olivetti da autori come Gianni Berengo Gardin, Henri Cartier-Bresson, Ugo Mulas, quest’ultimo chiamato nel 1962 a raccontare la donna che lavorava in azienda. Le immagini venivano poi pubblicate sulla rivista Comunità: oggi la definiremmo un house organ, o giornale aziendale, ma a sfogliarne un numero si capisce che era qualcosa di più perché raccontava il mondo ai dipendenti e i dipendenti al mondo. Praticamente un social network ante litteram stampato in ogni Paese dove erano presenti stabilimenti dell’azienda di Ivrea. Bisogna fare molti passi indietro però per comprendere che, in fin dei conti, è proprio dalla Silicon Valley che tutto ha avuto inizio. Camillo Olivetti, dopo la laurea al Politecnico di Torino, nel 1893 va per la prima volta negli Stati Uniti e si ritrova a insegnare fisica alla neonata Stanford University di San Francisco. Ma è nel successivo viaggio americano, 15 anni dopo, che focalizza la sua attenzione sulle macchine da scrivere. Nel 1908 torna a Ivrea e fonda la società Ing. Camillo Olivetti & Co. «Carissima Luigia, è questa la prima lettera... ricevi mille baci affettuosi da Camillo», Ivrea, 12 agosto 1908. È alla moglie che dedica il primo testo scritto con una Olivetti appunto uscita dalla fabbrica di mattoni rossi. Quella fabbrica di fine Ottocento è l’inizio di una storia imprenditoriale, sociale e culturale che non ha eguali nel mondo, nemmeno laggiù in California. Quando nel 1911 la M1 viene presentata all’Esposizione universale di Torino il successo è immediato. I cento operai assunti ne realizzano 25 alle settimana. Fin da subito si punta su tecnologia, sperimentazione e marketing. Persino Dante Alighieri diventa testimonial di questo gioiello di meccanica e design esposto ora nelle sale dell'Archivio Storico che ripercorrono un secolo di modelli Olivetti. L’ingegnere non doveva essere un tipo facile, ma fin da subito istituisce una mutua aziendale per i dipendenti, un primo passo verso un approccio attento alla comunità, non solo al profitto. Nel 1914 spedisce anche il figlio Adriano alla catena di montaggio, un’esperienza che quest’ultimo definirà “una tortura per lo spirito” e che contribuirà a cambiare completamente la visione del giovane Olivetti.
A guardare dall’alto il lungo corso Jervis che inizia vicino alla stazione e prosegue fino alla periferia, il prima e il dopo appare evidente. Accanto alla fabbrica di mattoni rossi si stagliano i tre ampliamenti realizzati tra il 1934 e il 1939 sotto la direzione di Adriano. L’erede designato dell’azienda per prima cosa segue le orme del padre andando negli Stati Uniti nel 1925. In sei mesi visita circa 100 fabbriche. Prende appunti, studia, ha ben chiaro fin da subito che cosa vuole esportare in Italia e che cosa no: «Qui il dollaro è veramente il dio», scrive. Meglio quindi concentrarsi sì sull’efficienza ma mantenendo un approccio umano. Il rientro non è semplice. In Italia il fascismo ha spazzato via ogni forma di opposizione. Adriano, insieme al padre e ad altri antifascisti come Sandro Pertini, Ferruccio Parri e Carlo Rosselli, aiuta la fuga in Francia di Filippo Turati. Viene per questo schedato come sovversivo e costretto a riparare a Londra. Al ritorno decide di impegnarsi completamente nell’azienda di famiglia. Tra le prime iniziative avvia il profondo rinnovamento dell’organizzazione del lavoro secondo gerarchie di merito e competenze (una cosa positiva imparata nelle fabbriche americane). Chiama poi gli architetti milanesi Luigi Figini e Gino Pollini per dare luce alla vita quotidiana degli operai. Ispirati dall’architettura razionalista che spopolava in quegli anni in Europa (Le Corbusier venne in visita a Ivrea ma si rifiutò di progettare alcunché), i due disegnano edifici ampi, chiari, con enormi vetrate per dare a operai e impiegati una luce naturale e uno sguardo all’esterno. Una rivoluzione non solo formale ed estetica. L’investimento coinvolge anche artisti, intellettuali e designer assunti per collaborare tutti insieme alla realizzazione di nuovi prodotti. Ma è soprattutto nella cura della comunità come insieme che Adriano si allinea agli insegnamenti paterni e li amplia istituendo una mensa aziendale, servizi di autobus per i lavoratori, le prime colonie estive dei dipendenti (a Ivrea in molti ancora se le ricordano ancora quelle gite al mare e in montagna). Garantisce alle donne dipendenti nove mesi di maternità a pieno salario, praticamente il doppio di adesso. Ovvio che tutta questa emancipazione non piace a tutti. Così come non piace la collaborazione di Adriano con gli Alleati, tanto che nel 1943 viene arrestato a Roma con l’accusa di “intelligenza con il nemico”. Durante la prigionia e la successiva fuga in Svizzera, Adriano Olivetti mette a fuoco L’ordine politico delle Comunità, il manifesto di quello che ha in mente di fare dopo, nella sua Ivrea, in tutto il Canavese e, perché no?, in tutta Italia: mettere la comunità al centro per ricomporre i conflitti del dopoguerra e creare una via alternativa sia al capitalismo sia al socialismo. Un progetto ambizioso che prende corpo fornendo servizi ai lavoratori e alle architetture. Proprio di fronte agli stabilimenti si sviluppa una fascia di edifici adibiti ai servizi sociali. Portano sempre la firma di Figini e Pollini la biblioteca (aperta a tutti, non solo ai dipendenti, dalla quale spesso sparivano libri per la gioia di Adriano) il centro culturale e l’asilo. La nuova mensa è progettata da Ignazio Gardella, così come le diverse aree residenziali, per i dirigenti e le famiglie numerose.
Ivrea diventa in breve una città modello tanto che lo stesso Le Corbusier disse che corso Jervis fosse la via più bella al mondo. Nel frattempo tecnici, progettisti e designer mettono a punto quei prodotti che avrebbero fatto la differenza: nel 1948 nascono la Divisumma e la macchina per scrivere Lexicon. Ma quando nel 1950 Olivetti lancia la portatile Lettera 22 Ivrea diventa famosa in tutto il mondo. Tutti guardano alla città nel Canavese come un epicentro imprenditoriale, culturale, artistico. Possiamo solo immaginare quanto questo potesse irritare la Fiat, da subito non proprio felice di avere un vicino di casa così diverso, così intraprendente (e soprattutto indipendente) come Adriano Olivetti che nel frattempo si espande e produce la Lettera 22 nello stabilimento di Agliè (Comune Bandiera Arancione Touring). E dalla cintura di Torino la macchina per scrivere disegnata da Marcello Nizzoli conquista intellettuali e divi, giornalisti e segretarie. Quando nel 1954 viene inaugurato il primo showroom sulla Fifth Avenue a New York, è l’artista sardo Costantino Nivola a realizzare i bassorilievi sulle pareti (ora purtroppo spariti e sostituiti da ciprie e rossetti di una catena di prodotti di bellezza). La genialità di quel negozio stava nella possibilità di provare la Lettera 22: una era posta su un trespolo, appena fuori della porta di ingresso. Un’operazione di marketing geniale che ne aiutò a vendere a centinaia di migliaia. In cantina o in soffitta chiunque di noi ne ha ancora una. Ce l’ha in bella mostra anche il MoMa, il Museum of Modern Art di New York, insieme a una Lexicon, nella collezione del design.
Gli anni Cinquanta a Ivrea devono essere stati bellissimi. Ogni sera al centro culturale si tiene un concerto, la proiezione di un film, una conferenza con Moravia, Pasolini, Gassman, De Sica... un via vai. Tutti vogliono andare a visitare questa comunità, tutti vorrebbero lavorarci. Nel 1958 i dipendenti Olivetti in Italia sono 14.200. Altri 10mila lavorano per le consociate all’estero. Guadagnano di più dei loro colleghi di altre aziende e lavorano di meno perché viene istituita la settimana a 45 ore con il sabato libero. La pausa pranzo dura due ore così tutti hanno il tempo di tornare a casa e pranzare in famiglia oppure di leggere, giocare a tennis o a bocce. Negli stessi anni Adriano fa ristrutturare la chiesa di S. Bernardino (e restaurare il quattrocentesco ciclo pittorico dello Spanzotti), a due passi dalla fabbrica, dove già la famiglia viveva dal 1907. Casa e bottega si potrebbe dire, mentre la terza generazione focalizza l’attenzione sull’elettronica. È Roberto Olivetti, insieme all’ingegnere italo cinese Mario Tchou, a guardare oltre con il primo calcolatore al mondo totalmente a transistor, l’Elea 9003, design di Ettore Sottsass. In quel periodo così proficuo Adriano si impegna anche in politica, acquista aziende americane sull’orlo del collasso, cerca di esportare ovunque la sua idea di comunità. Questa cavalcata si interrompe bruscamente il 27 febbraio del 1960 quando Adriano muore su un treno diretto in Svizzera. Per un po’ l’espansione della Olivetti non si ferma e nemmeno l’impeto rivoluzionario di Ivrea. Vengono costruite altre unità abitative come la celebre Talponia e nuovi edifici per uffici. Le colonie continuarono a funzionare e in biblioteca spariscono ancora i libri. Quella che però viene a mancare è la sua energia ed è mancato soprattutto l’orgoglio nazionale per una realtà italiana che stava conquistando il mondo. Per anni si è detto che Adriano era troppo avanti, che la sua Ivrea fosse un’utopia. Utopia che è diventata, nel 2018, Patrimonio dell’umanità Unesco nella sua parte architettonica e urbanistica; utopia che si è trasformata in computer e telefonini disegnati anche per essere belli, ma questa volta in California. Qui è rimasta una comunità che ricorda e scalpita per guardare avanti. È già un punto di riferimento Tecnologic@mente, uno spazio espositivo e un laboratorio di ricerca che si trova nel primo ampliamento olivettiano e che presto prevede un innovativo percorso di visita. E poi c’è l’ambizioso progetto del Quinto ampliamento che vede la partecipazione di imprese locali, associazioni e fondazioni per far rivivere la filosofia di Adriano Olivetti adeguandola al terzo millennio. «In me non c'è che futuro», scriveva l’illuminato imprenditore. E a Ivrea nel futuro vogliono tornarci presto.