Controcanto. Leopoldo II in Maremma

Franco Spuri Zampetti

Il buen retiro del Granduca Imperatore
 

«Mentre un raggio di benigna stella scende sull’orrizzonte grossetano ad alzare l’animo degli indigeni a grandi speranze di un propizio avvenire, mentre gli sguardi di tutti i buoni tranquillamente rivolgonsi verso cotesta contrada (...) cresce in proporzione l’ansietà di conoscere le storiche vicende di una città sorta nel medioevo in mezzo a una valle che forma uno degli oggetti delle provide cure e delle generose magnificenze dell’Augusto Principe che attualmente regge i destini della Toscana» Cav. Emanuele Repetti e altri dotti italiani, Dizionario Corografico della Toscana, Edizione Civelli, 1855

La statua di Leopoldo II è lì, sulla piazza principale che interrompe la via centrale che collega in poche centinaia di metri la Porta di Mare con la Porta di Terra, uniche due aperture nel «giro esagono delle solide sue mura» che furono costruite dai Medici e mantenute dai Lorena, ma che i grossetani continuano a chiamare senesi. Statua in piazza Dante (nel linguaggio grossetano il Cisternone), lui vivente e regnante, nel fulgore della sua lotta alla febbre terzana che aveva ridotto Grosseto al lumicino dove, come dice la Guida Rossa Toscana del meritorio Tci, «vi sorge nel mezzo il monumento a Leopoldo II di Luigi Magi (1846), eretto in segno di riconoscenza per la lotta da lui promossa contro la malaria». Gli irriverenti toscani lo chiamavano il Canapone, per il color canapa dei capelli e della barba, ovvero Broncio per il labbro inferiore sporgente che lo rendeva corrucciato, ma nella piazza il Granduca era soccorrevole, avvolto nella tunica del laticlavio, nel candore di Carrara che ne nascondeva la porpora, intento a risollevare la Maremma. Una Maremma scolpita nelle vesti discinte di una giovane donna con un figlio ormai morente al suo fianco, mentre l’altro era già per mano all’Augusto Sovrano che con serena determinazione, con il piede, schiacciava il serpente velenoso della malaria. Per i grossetani restava il Canapone e sotto il portico l’insegna di un ristorante ne porta ancora il soprannome (dall’etimo divenuto incerto per il contiguo Canapino, detto così per il minor prezzo del pasto).

Le maremme erano il suo buen retiro, così poco popolate e rigogliose di natura, con tutti quegli esseri viventi che davano senso negli stagni e nella padule di Castiglioncello alle filastrocche del Giusti che tanto lo avevano fatto arrabbiare: «Al re Travicello piovuto ai ranocchi, mi levo il cappello e piego i ginocchi. Calò nel suo regno con molto fracasso; le teste di legno fan sempre del chiasso». Lontano da Firenze, tra quei butteri, il Lorena non si sentiva più dilaniato tra i Savoia e gli Asburgo. Poi i maremmani gli volevano bene in modo spontaneo, con la riconoscenza anche nel giorno dopo, in genere ventoso, che spazzava il cielo e faceva piegare le canne, le ance, le cannucce, sui bordi fangosi dei canali che avevano ridotto la palude. Aveva anche restaurato il Duomo, con quella scritta sotto l’orologio solare verso la piazza: “sicut incitati equi fugit irreparabile tempus (come cavalli spronati fugge irreparabilmente il tempo)”. Anziché angoscia il motto gli dava serenità, non vi vedeva altro che la constatazione che doveva far presto a celebrare se stesso e a lasciarne la traccia, come avevano fatto i senesi con lo scudo mezzo bianco e mezzo nero che ancora brillava, nella policromia dei marmi, sul pilastro della porta della navata, dopo secoli di dominio della Signoria, a dimostrazione che le opere restano. Quella incertezza del tempo del vivere e del regnare che nella rarità delle opere portate a termine e dell’irrequietezza dei tempi, spingeva il Granduca a fare, e che avrebbe reso lieve l’esilio che da lì a poco sarebbe venuto per l’ultimo dei Granduchi, poi sepolto nella Cripta dei Capuccini di Vienna come un Asburgo, nonostante avesse loro fatto guerra a Curtatone a fianco di volontari livornesi, studenti pisani, guardie civiche lucchesi, granatieri e artiglieri toscani.

Franco Spuri Zampetti
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