La viaggiatrice. Milano a occhi aperti

Riflessioni e pensieri passeggiando ai tempi rarefatti della pandemia

Venendo da via Salvini, appena sotto l’arco della meravigliosa casa dell’architetto Piero Portaluppi che sbuca su corso Venezia, la pietra rosa del Museo di Storia Naturale sembra incongrua quanto un miraggio esotico nello smog milanese: così sospesa tra le fronde degli alberi, così misteriosa con i suoi motivi neogotici. Si entra nei giardini pubblici Montanelli cullati da questa promessa, subito esaudita dagli ippocastani con le infiorescenze bianche simili a coni gelato rovesciati: proteggono le panchine di pietra, luogo deputato a effusioni open air di giovani e giovanissimi senza tetto né legge.
È un mondo ecumenico dove gli opposti convivono. Un calco della città che ne ripete anche le stratificazioni sociali, come cerchi concentrici di un tronco d’albero tagliato. Grappoli rumorosi di nordafricani e gagliarde cicliste cinquantenni che sfrecciano in minigonna leopardata. Mamme in spolverino con passeggini altissimi e homeless abitudinari che sonnecchiano, ognuno sulla propria panchina di riferimento. Corolle di giovani ninfe velocissime e biondissime che saltellano agli ordini di una marescialla e anziani alle prese col Tai Chi dai movimenti così impercettibili che sembrano fermi, come se andando piano rallentasse anche la discesa del tempo. C’è pure un giovanotto che vende calze, da panchina a panchina: «Vengo da Napoli, ho portato le sfogliatelle fresche» dice esagerando la risata mentre mostra la merce “in puro filo di scozia”. Si sentono i fischi dei merli e il cauto cinguettio dei passeri, piccioni impavidi ti passano tra le gambe, cattivissime cornacchie sbraitano chiarendo il loro diritto alla prepotenza, cipressi calvi bordeggiano il laghetto con le anatre, magnolie spettacolari gonfiano il petto dispiegando la chioma di lucide foglie.

Negli spazi un tempo occupati dallo zoo, la vecchia vasca celestina dell’ippopotamo fa da pendant al violetto del glicine che gli piove addosso: prima folto poi più esangue, come un fiotto d’acqua prosciugato durante la caduta. Sono impressionanti i resti della maestosa quercia che si è schiantata nel 2019, intitolata al poeta Eugenio Montale. Il legno rossiccio con le sue venature irregolari somiglia a carne disseccata al sole, a un quarto di bue, il tronco proteso in avanti che solleva due braccia al cielo, forse recitando una preghiera non esaudita.
Durante la pandemia la sensazione dell’oasi, materiale ma anche mentale, è stata forte. Tra tanti divieti, questo che è stato il primo giardino pubblico di Milano (inaugurato nel 1784), era invece un luogo permesso, abitato da una natura addomesticata, ma non del tutto. Capace, come fa un platano, di mettere radici anche nell’intelaiatura di un ponticello di ferro, sbucando a sorpresa tra le travi. Con i suoi viali ordinati, il piccolo mondo delle giostre, gli alberi magnifici, suggerisce l’idea che la vita si possa comunque salvare, anche di fronte all’assurdo. Perché perfino i contenitori dei rifiuti Amsa recano la scritta: «Nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma», firmato: Antoine-Laurent de Lavoisier.

Peso: 
14