Carso, la sorpresa nella roccia

Migliaia di caverne, voragini e abissi bucano, come un gruviera roccioso, l’altopiano al confine con la Slovenia. Siamo scesi in un mondo sotterraneo misterioso dove l’acqua scolpisce vuoti bizzarri e cesella foreste di stalattiti e stalagmiti. Che affascinarono Vittorio Bertarelli, fondatore del Touring Club Italiano

 Colata di calcite albina, sembra una medusa che fluttua nel buio. Aggiro una fessura sul pavimento addossandomi alla parete, faccio attenzione ai massi. Non che lì sotto ci sia qualcuno, ma è buona abitudine accatastarli in un angolo piuttosto che farli cadere. Tanto, capita sempre il momento in cui uno speleologo si trova davanti all’incognita di un buco nero da interrogare. È allora che si ricorre al rituale del sasso per scandagliare, a occhio e croce, la profondità che ci attende. Le volte in cui avrei preferito non farlo sono state sui monti Alburni (in Cilento) quando, nella grave degli Urri, il pozzo risultò profondo 164 metri; in Sardegna, sull’altipiano del Golgo, durante l’esplorazione della voragine di Su Sterru: 270 metri; ma soprattutto in Grecia, tra le brulle e dolomitiche montagne di Astraka. Solo dopo una ventina di secondi Provatina Jama mi fece intuire la mostruosità del suo baratro: coi suoi 400 metri è uno dei pozzi più spaventosi del mondo sotterraneo.

La cosiddetta Via Angusta, invece, non si sta affatto smentendo: finora abbiamo percorso stretti passaggi e piccoli salti. Raggiungo Antonio Denora, la mia guida, che mi accoglie con un «Ci siamo».

Scendo un corridoio inclinato, pochi metri e sul fondo occhieggia un finestrone circolare oltre il quale il percorso inizia a farsi serio. Mi affaccio, lancio un urlo, mi torna l’eco di un grande vuoto. Indefinito, densissimo, potente. Che mi chiama. Obbedisco, vado. Maneggio moschettoni, longe di sicura (un dispositivo di protezione), discensore e sono appeso nel nulla. Lentamente, mi calo in una notte eterna. Punto la lampada del mio casco in ogni direzione, il fascio di luce alogena si perde nel nulla: ora capisco perché i primi esploratori hanno chiamato questa grotta Impossibile.

Per quanto il Carso sia noto per i suoi mondi sotterranei, una caverna simile non l’avrebbe immaginata nessuno. Raggiungo il fondo, grido «Libera!». Mi giro su me stesso cercando di capire dove sono finito, ma è dura senza punti di riferimento. Dietro un masso sbuca Clarissa, triestina doc, 50 anni di cui 29 trascorsi a esplorare grotte con il gruppo speleologico San Giusto e, ora, con il Club Alpinistico Triestino: «Quando i componenti della Commissione grotte Eugenio Boegan ci sono arrivati per primi, 17 anni fa, non potevano credere ai propri occhi e, soprattutto, all’eco. La caverna Carlo Finocchiaro, 130 metri per 80 con un’altezza di 90, è qualcosa tra l’assurdo e il sogno, impossibile appunto». Lancia un urlo e uno dopo l’altro si accendono le lampade degli speleologi sparsi nel salone. Davvero da non crederci, l’ambiente è enorme, sembra un cielo notturno e le luci degli altri sono lontane come stelle. «Ci troviamo sul dorso di una grossa frana e, tranne che a sud, la grotta continua ovunque. I primi speleologi arrivarono da laggiù – punta il braccio verso destra –, attraversando il ventoso Passaggio Venturi».

Tutto comincia nel novembre 2004 durante i lavori di scavo del tunnel autostradale della Grande viabilità triestina, in località Basovizza. Brillarono gli esplosivi e si aprì un varco nel calcare dal quale soffiava una fortissima corrente d’aria, chiaro segno che era stata intercettata una cavità di grandi dimensioni. Da allora le scoperte nella grotta Impossibile non si sono mai fermate e, anno dopo anno, sono state svelate altre gallerie, meandri e pozzi per una lunghezza di oltre quattro chilometri e mezzo e una profondità di 275 metri. Diventando, quindi, una delle più spettacolari e sorprendenti manifestazioni ipogee dell’intero Carso triestino.

Le esplorazioni nel ventre di questo affascinante e boscoso altipiano, il cui nome deriva dall’antica radice pre-indoeuropea kras (che significa roccia), iniziarono nella prima metà del 1800 come primissimo impulso alle ricerche delle acque sotterranee del Timavo per alleviare la sete della città di Trieste, cercando di captare il corso del fiume che, inabissatosi nella voragine di San Canziano in Slovenia, sbuca dopo 34 chilometri alle sorgenti di San Giovanni di Duino. Epica fu l’opera dell’ingegnere minerario Antonio Federico Lindner che nel 1841 esplorò i numerosi pozzi dell’abisso di Trebiciano sul fondo del quale, in una caverna successivamente a lui titolata, trovò l’alveo del Timavo a 329 metri di profondità.

La vera svolta si ebbe nel 1883 quando fu costituita una Commissione per le grotte nella Società degli Alpinisti Triestini, divenuta poi Società Alpina delle Giulie. Si prese a indagare la “Carsia Giulia” restituendo per ogni cavità un rilievo topografico e annessa scheda di documentazione, dando vita al primo catasto di ricerche sotterranee al mondo, che nel 1926 fu pubblicato in Duemila Grotte dal Touring Club Italiano. Gli autori del volume, pietra miliare della storia della speleologia, furono Eugenio Boegan e Luigi Vittorio Bertarelli, tra i fondatori nel 1894 del Touring Club Ciclistico Italiano nonché presidente fino al 1926, data della sua morte.

Da allora il Carso triestino ha attratto la curiosità, lo spirito di avventura e il desiderio di conoscenza di tanti geografi del buio che, di generazione in generazione, hanno studiato e censito in totale 2.796 grotte scandite da caverne, meandri, gallerie, cunicoli, fiumi e laghi misteriosi, pozzi e inghiottitoi noti (nell’area giuliana) col toponimo di foibe e tragicamente legate agli eccidi delle milizie iugoslave di Tito alla fine della seconda guerra mondiale. Per non parlare delle foreste di stalattiti, colonne di calcite, cristalli e altre stravaganti formazioni create dal lento stillicidio delle acque carsiche in milioni di anni. «Ciò che rende impossibile questa grotta – continua Clarissa – è la bellezza delle sue concrezioni. Ma la vera sorpresa sta proprio sopra le nostre teste». Procediamo verso il centro della caverna e davanti a noi s’impenna uno spaventoso monolite di calcite: «Si è formata in più o meno un milione di anni fa ed è la più grande stalagmite d’Italia: coi suoi 22 metri di altezza ha tolto il primato alla Colonna Ruggero della grotta Gigante».

Il primato sotterraneo del Carso triestino spetta, invece, alla grotta Claudio Skilan, lunga 6 chilometri e mezzo e profonda 378 metri, parzialmente aperta a visite speleoturistiche dalla Galleria Alma, estesa per 400 metri e piena di concrezioni, all’imbocco del grande pozzo (140 metri) che precipita in gallerie un tempo attraversate da un fiume. Per avere un’idea di come le acque sotterranee possono plasmare il calcare bisogna invece puntare a Gabrovizza, esattamente nella grotta dell’Orso, il cui nome deriva dai resti di Ursus spelaeus rinvenuti durante le campagne di scavo (da fine 1800 a metà ’900) che hanno evidenziato sul fondo, in uno strato pleistocenico, i fossili di ben 23 specie animali tra i quali il leone, la iena, il lupo e la volpe. Mentre in prossimità dell’ampio ingresso sono state scoperte le tracce di una frequentazione neolitica. La visita della cavità, comodissima, segue l’ampia galleria lunga 175 metri e alta in alcuni punti 20 con una sezione semicircolare.

In val Rosandra, uno dei paradisi escursionistici della Venezia Giulia, è la grotta Gualtiero Savi a sfoggiare un complesso di gallerie abbellite da stalattiti e colate calcitiche. Ubicata nel territorio di San Dorligo della Valle, si sviluppa nelle viscere del monte Stena per oltre tre chilometri. Due classiche tappe ipogee sono poi le grotte Gigante e Noé. La prima, già frequentata nella preistoria, vanta un’altra mastodontica caverna lunga 168 metri, larga 76 e alta quasi cento per un volume di 365mila metri cubi: al suo interno ci starebbe tranquillamente l’intera Basilica di S. Pietro. Visitarla oggi è un’escursione confortevole, con le terrazze panoramiche e i percorsi ben illuminati fino alla Sala dell’Altare, ma quando nel 1840 ci entrò per la prima volta Antonio Federico Lindner, durante le ricerche del Timavo, era un posto davvero inquietante.

Le documentazioni di quella e altre storiche esplorazioni ­– unitamente alle sezioni di geologia, paleontologia, archeologia, geofisica, carsismo, flora e fauna ipogee – sono visibili nell’annesso Museo Scientifico e Speleologico. Altrettanto spaventosa è la voragine di accesso alla grotta Noé, una poderosa campana che s’inabissa nel calcare di Duino Aurisina per 60 metri alla cui base si sviluppano due imponenti gallerie, sicuramente facenti parte di un sistema scavato da un fragoroso e antichissimo fiume, per una lunghezza totale di 566 metri.

Nonostante le secolari ricerche, i sotterranei del Carso continuano a riservare sorprese ai dieci club speleologici della città di Trieste. Il tanto agognato Timavo, intanto, è stato ritrovato sul fondo della grotta Lazzaro Jerko, nel Comune di Monrupino. Scovata dagli instancabili della Commissione grotte Eugenio Boegan alla fine degli anni ’60 dopo un faticoso lavoro di scavo, raggiunge la profondità di 300 metri dove i saloni Medeot e Polley sono invasi dalle acque del fiume, nelle quali è stato avvistato il rarissimo proteo, un anfibio troglobio (che vive esclusivamente in grotta) diffuso nelle grotte slovene di Postumia. Intanto, nell’abisso di Rupingrande il Club Alpinistico Triestino ha raggiunto la profondità di 318 metri arrestandosi su un piccolo laghetto. Insomma, l’avventura dentro il Carso continua e sicuramente Luigi Vittorio Bertarelli, che lo definì il suo ultimo grande amore, oggi lavorerebbe a una nuova e aggiornata edizione del suo celebre volume Duemila Grotte.

Fotografie di Carlos Solito
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