La viaggiatrice. Così vicino, così lontano

Coma la pandemia, impedendo di viaggiare e di "andare lontano" ha fatto riscoprire l'esotismo della prossimità

È ancora possibile provare il gusto dell’esotismo in un mondo che incessantemente si muove, scambia, si rimescola? L’Altro esotico, un luogo o un popolo che sia, è desiderato proprio perché lontano, nello spazio e soprattutto nel tempo. Ma lontano da dove? Dall’Europa, dall’Occidente, è nella lingua dominante che si pensa e si dice l’esotismo. Per secoli è stato un utile strumento dell’egemonia coloniale che ha fissato dei “qui” assoluti e degli “altrove” radicalmente estranei. Uno strumento (per noi) seducente che a partire dal Cinquecento ha dato luogo a un fenomeno culturale in pittura, architettura, letteratura, da Montaigne, uno dei primissimi a relativizzare la nostra cultura, a Rousseau, col suo mito del buon selvaggio, da Conrad a Stevenson, da Loti a Claudel, da Delacroix a Gauguin, hanno tutti vagheggiato e idealizzato il fascino della lontananza e dell’ignoto.
A partire dai primi del Novecento ha cominciato a declinare, risorgendo periodicamente più vivo che mai, basti pensare alla mania del ballo e della musica “selvaggi” nella Parigi tra le due guerre o alla fascinazione per le culture e le religioni orientali del mondo hippie negli anni Sessanta e Settanta, fino alla moda New Age, più vicina al presente. Con l’ampliarsi dei mezzi di trasporto, dell’informazione, del regno dell’immagine e infine della rete, la fantasticheria esotica perde progressivamente il suo oggetto, l’altrove lontano, sistematicamente esplorato, inventariato, cartografato, e con il turismo di massa anche freneticamente visitato, non ha più mistero. In un mondo noto e percorso in lungo e in largo, niente appare più estraneo e poco importa che tale pretesa conoscenza sia superficiale e dia solo l’illusione di una familiarità con il diverso, è sufficiente a togliere all’altrove ogni incanto.

Che cosa resta da fare a chi continua a essere attratto dallo spaesamento? Alcuni (specie negli ultimi mesi, per ragioni arcinote) suggeriscono la scoperta o la riscoperta del vicino, che a forza di guardare lontano, avremmo trasformato in un punto cieco. Non si tratta di fomentare l’attaccamento retrivo e ai propri luoghi, ma anzi di diffondere l’antidoto all’idea di un’identità fissa e immutabile, non ripiego ma apertura, accoglienza, consapevolezza che siamo noi i creatori (e i distruttori) della nostra geografia.
Anni fa l’antropologo Marc Augè scriveva: «Il mondo esiste ancora nella sua diversità. Ma essa ha poco a che vedere con il caleidoscopio illusorio del turismo. Forse uno dei nostri compiti più urgenti è quello di reimparare a viaggiare, eventualmente nel più vicino a noi, per reimparare a vedere». E prima di lui George Perec invitava a «interrogare l’abituale», la prossimità spaziale alla quale non prestiamo più attenzione, per scoprirne le radici multiple, le sedimentazioni, gli infiniti apporti esterni dei molti altrove trasformati nel tempo in altrettanti “qui”.

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