di Tino Mantarro | Foto di Giuseppe Carotenuto
Deve esserci un convegno di rondini canterine, sopra la vallata delle cantine di Barile. Qualcosa di simile a una scuola di volo acrobatico. Decine di volatili dalla coda biforcuta si devono essere dati appuntamento per un’esibizione dimostrativa di volteggi e planate, spirali in ascensione e arditi atterraggi.
Del resto la strada per il Vulture sembra la conoscano meglio le rondini delle persone. Geograficamente si fa fatica a collocarlo su di una mappa. “Dov’è il Vulture?”, chiedono i non lucani. È una zona non troppo estesa della provincia di Potenza che si trova all’estremo nord della Basilicata, all’incrocio tra l’Irpinia e la distesa del Tavoliere. Comprende una dozzina di Comuni, tra cui Rionero e Barile, ma anche le più popolose Venosa, la città dove è nato Orazio, e Melfi, un tempo residenza di Federico II, oggi città della Fiat. Una zona di una bellezza inaspettata e ignota a chi non sia di qui: paesaggi vasti che colmano gli occhi e cambiano a seconda del punto da cui si guarda. Verso Oriente si ammira l’immensità geometrica della piana coltivata a grano e punteggiata di pale eoliche, un’immensità che in estate è un mare immoto giallo ocra che arriva fino al Gargano e all’Adriatico. Verso Occidente il panorama è chiuso dal profilo a sette punte del monte Vulture, un cono vulcanico di 1326 metri – non attivo ma geologicamente non considerato spento – che domina una montagna verde, punteggiata di castagni e pascoli, paesi raccolti con qualche palazzone fuori scala di troppo a rovinare l’insieme, e una campagna con gli immancabili ulivi e chiazze di ordinati filari di vite. Filari dove cresce un vitigno a bacca rossa, l’Aglianico, che sta contribuendo in modo determinante a far conoscere questo angolo di Basilicata nel mondo dell’enogastronomia.
E di vino si occupano i membri di Generazione Vulture, un gruppo informale di persone che stanno tutte in quell’età in cui oggi in Italia si viene ancora definiti giovani, ma un tempo sarebbero stati semplicemente adulti nei migliori anni dalla loro vita. Otto persone unite dalla grande passione per il loro lavoro – produrre vino, anzi Aglianico del Vulture – e per il territorio da cui germina questo rosso scuro e potente, che secondo quelli che di enologia se ne intendono è un po’ il Barolo del Meridione, il vero vino nobile del Sud Italia. Un vino che fa impazzire gli americani (il 70 per cento della produzione prende la via dell’estero), finendo per essere più presente nei ristoranti a New York che a Roma, o Matera
«Un tesoro che vorremmo diventasse il volano per far conoscere questa zona, in modo che tutti se ne possano innamorare come è capitato a me» spiega Viviana Malafarina, ligure di ascendenze istriane, una laurea in slavistica, un passato di mille lavori, arrivata un decennio fa a Barile per guidare la cantine Basilisco allora appena acquisite da Feudi di San Gregorio, solida azienda campana del vino di qualità. Fare dell’Aglianico la porta d’ingresso di queste terre sembra essere la missione non esplicita di questo gruppo di produttori che si sono trovati per affinità elettiva più che per interessi contingenti. «Siamo amici oltre che colleghi, convinti che il seme per lo sviluppo di un territorio stia nella terra e nella sua gente, nella voglia di cambiare, sperimentare, far squadra e battere nuove strade» aggiunge. Una rivoluzione copernicana in un territorio dove l’immobilismo politico da sempre sembra essere la strada maestra. «Se non ci impegniamo noi chi è che si mette a far da traino allo sviluppo del nostro territorio?», è la molla che li guida.
Generazione Vulture per cominciare fa una cosa che può sembrare strana in un mondo di invidie e rivalità come quello del vino: si promuovono a vicenda. Nel senso che quando vanno a una fiera o a un qualsiasi evento di rado riescono ad andare tutti insieme. Per cui chi va parla anche dei prodotti degli altri, li fa assaggiare e ne racconta la storia. «Le aziende della zona insieme producono meno di tre milioni di bottiglie con cui andiamo a concorrere sul mercato globale, che senso avrebbe comunicare la mia azienda piuttosto che la sua, e non puntare invece su un nome, il Vulture, che ha una possibilità di emergere?» spiega uno di loro, Luca Carbone. «Anche perché senza questo territorio, inteso come “terroir” vulcanico con le sue caratteristiche specifiche, questi vini non sarebbero gli stessi e neanche questi paesi» aggiunge Paolo Latorraca, enologo della Cantina Madonna delle Grazie di Venosa. «Quel che serve invece è portare qui persone, mettere il Vulture sulle mappe e farci conoscere», aggiungono Lorenzo e Andrea Piccin, eredi di una famiglia di vignaioli che da Montepulciano si sono trasferiti in Basilicata nel 2002. «I nostri genitori erano stufi di una regione dove tutto era già stato fatto, sperimentato. Qui vedevano potenziale per crescere, potenziale che esiste ancora e non è sfruttato» aggiungono. «Il bello, o il paradosso di questa sfida è che qui come agisci lasci un impronta. Ti rendi conto che c’è tanto da fare, e dunque quel che fai ha un effetto immediato» spiega Malafarina
E da fare c’è ancora molto. L’offerta ricettiva della zona è scarsa sia per numero di letti sia per capacità di accoglienza che vada oltre il semplice tetto, ma qualcosa si muove. «Per ora siamo riusciti a fare breccia solo tra i ristoratori. Però la pandemia e la conseguente riscoperta dell’Italia ci hanno aiutato. Dalla scorsa estate organizzo degustazioni in cantina e la risposta è stata ottima» spiega Carbone. La sua cantina è un gioiello con oltre mille secoli di storia, scavata nel tufo della rocca di Melfi nell’epoca in cui la città veniva fortificata. Come la sua, in zona molte altre cantine sono scenografiche e ricche di storia. A Barile c’è un intero costone della collina punteggiato di cantine dove trovò rifugio la popolazione di origine albanese (fuggita dai Balcani nel 1466 all’arrivo degli Ottomani) e oggi sono diventati il luogo di affinamento dell’Aglianico. Pasolini ne rimase affascinato e nel 1964 ci girò alcune scene del suo Vangelo secondo Matteo. Da allora non molto deve essere cambiato: vengono usate dagli anziani per conservare vino e prodotti, aperte quando si tiene Cantinando, settimana di eventi dedicati a vino e non solo. E qui si torna all’idea che guida tutti i membri di Generazione Vulture: «Comunicare il territorio prima ancora dei nostri vini».
Bisognerebbe sviluppare l’enoturismo, accoppiando visite in cantina e passeggiate naturalistiche, assaggi a tavola e gite culturali agli scavi archeologici di Venosa, o al castello dei Melfi, ma anche alle scoperta della cultura arbëreshë di Barile (la cultura degli albanesi trapiantati in Italia nel XV secolo) o dei laghi di Monticchio. Due laghetti trasparenti avvolti nel verde che si trovano all’interno del cono vulcanico, belli ma appannaggio di un turismo di giornata fatto di pedalò e souvenir polverosi. Certo, l’enoturismo non è nulla di innovativo, ma sarebbe la giusta nicchia su cui puntare. E questo territorio ha bisogno di nicchie, non di torpedoni. Attirando turisti consapevoli, disposti a fermarsi e spendere. Turisti che potrebbero andare da Franco Rondinella, a Ripacandida. Qui, non distante dal santuario di S. Donato, ha aperto una spa al miele, dove la ricerca del benessere è mediata dalle api. Un posto innovativo, con una stanza vista vulcano dove il ronzare delle api è usato per stimolare il relax. Sulle prime sembra fuori luogo in un paese contadino privo di qualsiasi vocazione turistica, ma potrebbe funzionare. «Questa è una terra difficile: o la odi o la ami. Me ne ero andato a 17 anni, lavoravo in Trentino negli alberghi al passo del Tonale, ma siccome la amo, ho pensato di tornare e portare qui la mia esperienza, facendo della mia passione per le api un’impresa» racconta. Da quando ha iniziato a Ripacandida sono nate altre tre aziende apistiche. «Con cento arnie una famiglia vive bene, eppure non si trova personale che voglia imparare. Ci sarebbe spazio per aumentare la produzione, perché gli impollinatori servono in un territorio agricolo come questo, ma troppi preferiscono andare in fabbrica o prendere il reddito di cittadinanza» lamenta. «Meno male che ci sono i ragazzi di Generazione, che tentano di fare qualcosa per metterci sulle mappe».
Come Franco Rondinella qualche decennio fa, una parte dei membri di Generazione ha scelto di andare altrove, formarsi e vedere che cosa succede nel mondo. «Quasi tutti qui vanno fuori a studiare, solo che la maggior parte non torna» racconta Carolina Martino. «Io sono partita sapendo che volevo tornare perché quello del vino è il mondo in cui sono cresciuta e di cui sono appassionata» spiega. Ha studiato economia a Roma ed è tornata per lavorare nella storica azienda di famiglia, Martino vini. Per lei come per altri il passaggio generazionale è una sfida. Sfida che qui spesso si declina al femminile «C’è ancora abbastanza diffidenza verso i giovani, nelle aziende gli anziani non passano la mano, rimangono concentrati sul “così si faceva” e si perdono occasioni» spiega Elisabetta Musto Carmelitano, che nel 2007 con il fratello si è messa a produrre vino in modo “moderno” a Maschito, mentre i nonni conferivano solo le uve alle cantine sociali.
E i giovani hanno dimostrato di saper fare, come testimonia la storia di Elena Fucci, il cui Aglianico Titolo è tra i vini italiani più premiati al mondo. Figlia di insegnanti, ha scelto di non abbandonare le vigne del nonno, ma di investire con tenacia nella sua terra. «A 18 anni ho deciso che l’enologia era la mia strada, sono andata a studiare a Pisa e ho iniziato a sistemare il vigneto del nonno. Sono stata un caso raro, una donna in un mondo declinato al maschile, almeno qui. Dopo vent’anni non sono più l’unica donna, e sono felice di aver dato il mio contributo a far capire che il Vulture non è solo un posto tra la Campania e la Puglia» spiega. Raffaella Irenze condivide la stessa voglia di fare partendo dalla terra. Presidente di Coldiretti donne per la Basilicata, dal 2016 ha creato Podere Malvarosa, un’azienda agricola di sette ettari nell’agro di Melfi, dove il cono del vulcano spiana e inizia il mare interno del Tavoliere. Un podere con una storia: «Era il numero 44 della Riforma agraria del 1952, venne assegnato al nonno, qui è nato mio padre e ora sono tornata» racconta. «Ho studiato in Toscana, potevo starmene nel Chianti, ma il Chianti non ha certo bisogno di me. Qui sì che c’è bisogno di fare, scardinare gli schemi stantii, il sistema» prosegue. E con l’energia con cui te lo racconta c’è da credere che ci riuscirà. Intanto commercializza fiori commestibili, produce erbe officinali, vince premi per il suo olio biologico realizzato con la varietà locale, l’ogliarola del Vulture, e cerca di creare una rete informale con chi condivide le sue idee. Come lei molti hanno fatto esperienza fuori, ma sono tornati a investire in Lucania.
A Rionero, sulla strada verso i laghi di Monticchio, Ersilia e Donatello hanno aperto il Birrificio del Vulture: in una terra di vini hanno pensato che ci fosse margine per bere altro e si sono lanciati nella produzione artigianale di birre che usano materie prime locali. Piccole cose, vero: ma non servono solo le cattedrali per invertire il corso della storia. Anche perché in zona la cattedrale c’è già, è lo stabilimento Fiat di Melfi, la personificazione del sogno del posto (quasi) fisso che inseguono i giovani che non emigrano. Diventare uno dei 7mila “fiattisti” (12mila con l’indotto) è una speranza, forse una chimera, che però draga forze che potrebbero essere investite altrimenti nel territorio. «E invece trovare personale preparato per i lavori in campagna, ma soprattutto tenerselo dopo averlo formato è davvero difficile» racconta Malafarina. E allora, come fare? «Abbiamo la necessità di raccontare il territorio andando oltre l’Aglianico. La necessità di raccontare il cambiamento che c’è stato in questa che è la terra raccontata da Carlo Levi, dove fino agli Cinquanta c’era la povertà del latifondo», sottolinea Fucci. Una terra dove c’è molto da fare, ma dove qualche seme ha già germogliato. Con la consapevolezza che tutti sono una vite nel vigneto, una parte che senza il tutto servirebbe a ben poco.