di Tino Mantarro | Foto Archivio Tci
L'epopea delle tonnare italiane nelle immagini dell'Archivio storico Touring.
Un tempo, quando i tonni entravano nella tonnara, le campane suonavano a distesa. Era il segnale: chiamavano i giovani e forti del paese al lavoro atteso per un anno. Suonavano a festa, quella strana festa di morte che è la mattanza. Dopo giorni di attesa, ore di osservazione e aggiustamenti, iniziava l’ultimo atto. A forza di braccia i tonnaroti issavano le reti fitte e pesanti della camera della morte ormai ricolma di tonni. Spinti dagli incitamenti del capo incontrastato, il Rais – «‘isa, tira, annamu, fuozza picciotti», con la tensione crescente come all’apertura dell’encierro di una corrida, fino a quando il rettangolo delle reti non si stringeva come un cappio, con l’acqua che ribolliva, tra spruzzi e ondate, le bestie impazzite di paura ma ancora vigorose, pronte all’ultimo inutile sforzo per tentare la fuga. Poi, quando la lotta finiva, le reti erano ormai serrate e strette, i pesci esausti, agonizzanti, solo allora cinque, sei uomini armati di arpioni con sforzi immani issavano tonni da oltre cento chili sulle loro antiche barche di legno, mentre l’acqua si tingeva di rosso.
Brutale e vitale, questo rituale si è ripetuto per secoli sulle coste del mar Mediterraneo. Pare che la tradizione di questa pesca che è una caccia risalga ai Fenici, che poi l’avrebbero esportata dalla Spagna alla Francia, fino alle nostre coste. Qualcuno dice che a portarla siano stati invece gli Arabi, all’epoca delle loro conquiste. Poco male, in tutta Italia per secoli è stato un appuntamento annuale. Quasi ovunque, da Favignana come a Scopello, a Porto Palo come a San Vito Lo Capo, in Sicilia; e poi a Carloforte e Portoscuso, in Sardegna, a Pizzo e a Bivona, in Calabria, a Conca dei Marini, sulla Costiera Amalfitana, a Camogli, in Liguria, e all’isola d’Elba, in Toscana
È stato, al passato, perché dal secondo dopoguerra tonnare e tonnaroti sono piano piano scomparsi. Chiuse una dopo l’altra le tonnare con la loro lotta antica e cruenta. Il tonno rosso viene ancora catturato in quattro tonnare della Sardegna, Isola Piana e Cala Vinagra a Carloforte, Porto Paglia e Capo Altano a Portoscuso, ma è una pesca diversa. Il tonno rosso è ambito soprattutto sulle tavole del Giappone, per cui gli esemplari vengono catturati e allevati in vasche che fino a poco tempo fa venivano trainate a Malta, dove poi avveniva la mattanza e i tonni, ingrassati a dovere per compiacere il palato nipponico, venivano spediti congelati verso il mercato del pesce di Toyosu, a Tokyo. A Favignana, dove i Florio avevano allestito la tonnara più grande del Mediterraneo, l’ultima mattanza è stata nel 2007. Nel 2019 c’è stata un tentativo di farla rivivere anche a scopo turistico, ma non sembra aver avuto seguito. Ora sull’isola a ricordare quell’epopea c’è un museo all’interno dell’ex stabilimento Florio, un altro, il Mut, è a Stintino, altri ancora a Milazzo e a Pizzo Calabro. A raccontare la mattanza non rimane che la voce di qualche pescatore che ancora l’ha provata. E qualche fotografia come quelle di queste pagine tratta dall’archivio Touring. Scattate nel 1955 da Bruno Stefani (uno dei reporter storici dell’Associazione, attivo tra gli anni Trenta e Sessanta) documentano momenti della vita della tonnara di Pizzo Calabro, sulla costa tirrenica della Calabria. Qui come altrove la tonnara era un’industria dentro e fuori dall’acqua. Un’industria chiusa nel 1963, che dava da lavorare a intere famiglie, tra uomini addetti alla manutenzione delle reti e alla calafatura delle barche, alla posa delle ancore e dei cavi per allestire la tonnara dalla tarda primavera fino alla pesca in quei giorni intensi e infuocati. Ma anche alle donne impiegate per cuocere e inscatolare il prodotto da commercializzare in tutto il mondo.
Era una pesca cruenta, la mattanza; l’avesse vista Ernest Hemingway chissà che epico romanzo ne avrebbe tratto. Ma era una pesca rispettosa, con i tonni piccoli che si salvavano e quelli grandi che andavano incontro al loro destino, mentre i tonnaroti li issavano sulle barche continuando nella loro nenia, recitando parole con cui, come da tradizione, «a tutti i tunni cercamu perdunu», a tutti i tonni chiedevano perdono. Mentre a terra, in paese, le campane suonavano a festa.