Evergreen. Isole molto ambite. Ma in pericolo

La sciagurata operazione del Demanio per cui si assegnano in concessione beni pubblici, possibilmente in luoghi di pregio, continua a mietere vittime e pone le basi per appropriazioni indebite di valori collettivi che sarebbe bene rimanessero tali e non svenduti al primo acquirente. È un processo comune: ho visto con i miei occhi iniziare in modi simili ogni tentativo di speculazione sui beni demaniali in questo Paese. Non è che arriva direttamente la multinazionale con le betoniere: si conquista preventivamente il territorio da sfruttare con apposite “teste di ponte”, che se non subito, torneranno utili in futuro. Questo rituale è stato applicato molte volte: si comincia con pochi posti letto, magari a uso foresteria, e si arriva all’albergo. Come a dire che non è importante che non si speculi oggi, lo si farà possibilmente domani. E come molti esempi dimostrano, aree protette e perfino parchi nazionali non sono sempre una garanzia. Le isole di Santo Stefano e Ventotene (Latina) confermano questa tendenza. Sono isole prese d’assalto, ma che reggono ancora perché scomode e lontane. Qui, anche in estate, finora, è possibile passeggiare nel silenzio o scendere a mare per dirupi scoscesi lungo i quali non si incontra nessun altro. Dopo i fasti dell’Impero Romano, Ventotene restò abbandonata a lungo, durante il fascismo divenne luogo di confino e forse per questo l’isola è diventata luogo di elezione di intellettuali nostrani. Qui strade propriamente dette sono quasi assenti, ma il traffico veicolare sta assurdamente compromettendo l’ultimo privilegio di Ventotene.

Appena più a est c’è Santo Stefano, un isolotto su cui è stato costruito un carcere per ergastolani poi abbandonato, un altro paradiso minacciato dalla solita arcaica idea di sviluppo: portare più persone in ambienti fragili con il risultato di svilirli, scontentare i turisti e danneggiare il capitale naturale. C’è in progetto di trasformare il carcere in un polo di attrazione turistica internazionale, e, come sempre, le operazioni iniziano dalla “rifunzionalizzazione” di un approdo (preparandolo così a diventare un porto), per evidentemente avere come fine la trasformazione del carcere borbonico. Dove si dovrebbe vedere godimento, bellezza e ambiente, i più avidi vedono sfruttamento, cemento e “sviluppo”, non avendo alcuna nozione né di quest’ultimo né del resto. Il fatto è che a Santo Stefano sono state imposte da anni sia un’area marina protetta sia una riserva naturale dello Stato, vincoli che permettono pochissimi interventi mirati e, nella zona A, rendono interdetta la navigazione. Barche e motoscafi, però, incrociano incuranti delle aree protette perché non c’è sorveglianza. Anche perché queste aree non ricadono in quelle di competenza del Parco Nazionale del Circeo, come dovrebbe essere, ma del Comune che si potrebbe sospettare interessato più agli alberghi che alla protezione del mare. Molti cittadini hanno protestato, ma la domanda è: non dovrebbe essere normale routine ascoltare prima i cittadini? Ed è possibile che lo “sviluppo” passi sempre attraverso il cemento? Non ci guadagnerebbero tutti con un restauro conservativo che ne garantisca l’accesso e la visita, mantenendone intatto il valore paesaggistico e di testimonianza storica?

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