Storie mitiche. L'Atlantide in Amazzonia

La storia di un colonnello britannico che cercava Atlantide in Amazzonia. E scomparve nella foresta nel 1925

Ventitré anni fa, in una cittadina del Mato Grosso un autista mi chiese che cosa faceva un italiano così lontano da casa. Risposi che ero un giornalista e dovevo raggiungere un villaggio degli indios Xavante. Subito mi interruppe: «Sei venuto a indagare ancora sul “mistero Fawcett”, vero? Gli Xavante furono sospettati, ma furono i Kalapalos ad ammazzarlo». Ci volle un po’ per capire di cosa stesse parlando, e molti di più per convincerlo che non era stata la tragica vicenda del colonnello Fawcett a portarmi in Mato Grosso. Il fatto che ancora se ne parlasse a distanza di decenni, però, mi sorprese. La storia era questa.
Negli anni Venti del secolo scorso, l’Amazzonia fu teatro di una vicenda che attirò l’attenzione dei giornali di mezzo mondo. Il colonnello britannico Percy H. Fawcett si era avventurato all’interno dalla foresta amazzonica convinto che proprio laggiù si trovassero i resti della mitica Atlantide. A suggerirgli l’idea era stato un manoscritto portoghese del 1743 – «Documento 512» – conservato nel Museo Nazionale di Rio de Janeiro, che parlava di miniere d’oro e di una grande città in rovina con templi e monumenti «più antichi di quelli degli Egizi» coperti di misteriose iscrizioni. Nel 1920, sicuro dell’autenticità del documento, Fawcett organizzò una spedizione, che dopo qualche settimana di marcia dovette tornare indietro a causa delle difficoltà ambientali. Nonostante il fallimento, la notizia del colonnello che cercava Atlantide in Amazzonia rimbalzò sui giornali nordamericani, che decisero di finanziare una seconda spedizione.

Così, il 20 aprile 1925, Fawcett partì dalla città di Cuyabà, in Mato Grosso, diretto nella regione compresa tra i fiumi Xingù e Kuluene, in compagnia del figlio Jack, dell’amico di quest’ultimo Raleigh Rimmel, di un paio di portatori indigeni e di alcuni cavalli. Ma dopo un paio di mesi di marcia in un ambiente che presentava sempre maggiori insidie, i portatori rientrarono alla base consegnando una lettera datata 25 maggio con la quale Fawcett annunciava alla moglie l’intenzione di proseguire verso est fino ai territori delle bellicose tribù Kalapalos e Xavante. Dopo questo messaggio, solo silenzio. Per settimane, per mesi, i giornali aspettarono il fatidico annuncio della scoperta dei resti di Atlantide, mentre aumentavano le preoccupazioni e circolavano le ipotesi più strampalate sul destino dei tre inglesi.
Ebbe allora inizio una serie di spedizioni di ricerca (oltre una trentina), una delle quali portò al rinvenimento di un teschio che il capovillaggio di una tribù Kalapalos indicò come quello del colonnello, che lui stesso aveva ucciso con una bastonata in testa quando si era accorto che Jack si era appartato con una delle sue mogli. Stessa sorte era toccata al figlio e a Raleigh. Era il 1945, e il mistero Fawcett sembrava risolto. Ma così non fu, perché la moglie non riconobbe il cranio come quello del colonnello. Nel 1952 Brian Fawcett, secondo figlio dell’esploratore, raggiunse il villaggio Kalapalos dove era stato rinvenuto il teschio, e fu accolto da un capotribù di circa venticinque anni, con la pelle così chiara che si scottava al sole. Brian lo abbracciò e si fece fotografare sorridente accanto a lui. Probabilmente aveva trovato il suo fratellastro.

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