di Nanni Delbecchi | Illustrazioni di Fabio Sironi
Milanese d’adozione, lo scrittore Nanni Delbecchi racconta la sua Lucca. E come alla fine abbia trovato l’uscita: grazie al cinema
Quando si parla di Lucca, e magari si ha la pretesa di spiegarla a chi non la conosce, non si sa da dove cominciare. Si vorrebbe cominciare dall’inizio e non lo si trova, si rischia di girarci intorno, come fossimo in un labirinto.
A Lucca c’è tutto, dicono i lucchesi, e non sentono ragioni. Difficile dargli torto. Mare, montagna, fiume, lago, palude… tutto a un tiro di schioppo, a portata di contado, ma anche alla giusta distanza, quanto basta per non disturbare. E soprattutto a Lucca c’è Lucca, perfetto meccanismo a orologeria adagiato nella sua piana circondata da colli; capitale orgogliosa e secolare, ma così piccola che può attraversarla un bambino, protetta dalle famose Mura che si vedono fuori, che sono anche dentro (da sempre i lucchesi si dividono tra chi nasce a Lucca Fuori, e chi a Lucca Dentro). I monumenti simbolo non mancano, a cominciare dalla torre alberata di Palazzo Guinigi; ma quel che conta davvero è l’insieme, il pugno chiuso nel suo mistero, l’infinito nella palla di vetro.
Lucca è Toscana e non è Toscana (le interpretazioni divergono sia dal punto di vista storico, sia sotto il profilo geomorfologico). Lucca è stata Comune, Repubblica, Ducato e Principato; ha dato i natali a Giacomo Puccini, che però si autoesiliò a Torre del Lago, e ha adottato Giovanni Pascoli, che in Lucchesia trovò la sua vera patria.
I lucchesi arrivano dappertutto – proverbiale il figurinaio che vuol vendere la madonnina di gesso a Cristoforo Colombo –, eppure a Pistoia già sentono nostalgia di casa. Come si vede, sarà meglio lasciar perdere l’inizio, e partire dal centro; ma anche questo non è così semplice. Se sei a Lucca, trovare il centro del mondo è facile: il centro del mondo è proprio Lucca, non si discute. Ma il centro di Lucca dove sarà?
Da ragazzo passeggiando sugli spalti delle mura sorvegliavo torri, campanili e facevo i conti in tasca “all’arborato cerchio”. Quattro chilometri e duecento metri di lunghezza, undici metri in altezza, quindici in larghezza, undici baluardi, un’ora e un quarto di buon passo, sei porte cittadine, 250 torri e 99 chiese (pare, ma non si arriva mai a contarle tutte). Da una rampa scendevo in Lucca Dentro e mi inoltravo nel groviglio delle vie medievali. I lastricati di pietra serena, le bifore e le inferriate dei palazzi, le corti popolari, gli anditi che sbucano in una piazzetta silenziosa, il profilo dei tetti che si accostano fin quasi a toccarsi senza mai toccarsi… a Lucca è bandita la linea retta, le prospettive sono curve, parziali, sghembe, come quelle dei sogni.
Quando arrivavo all’angolo tra piazza Bernardini e via S. Croce, mi fermavo per qualche istante, interrogandomi su quale fosse il centro della città. Proseguendo per via S. Croce, in un batter d’occhio si arriva in piazza S. Michele, dove Matteo Civitali siede sul suo scranno di bronzo sotto la loggia, dove il gonfaloniere Francesco Burlamacchi appoggiato allo spadone di marmo osserva i bambini rincorrersi sul sagrato, dove il fianco della chiesa è percorso sul retro della facciata da una scala sospesa nel vuoto.
Piazza S. Michele in Foro, così chiamata perché si trova nel punto in cui si incrociano il cardo e il decumano del castrum romano, è senza dubbio il cuore della città, il piccolo mare in cui sfocia il passeggio di via Fillungo, la via dello struscio e delle compere, dei marchi, dei caffè e dei gioiellieri storici (a Lucca ci si conosce sul Fillungo, ci si fidanza sulle Mura e ci si sposa in chiesa).
Ma cuore e centro combaciano sempre? Sono sempre la stessa cosa? A Lucca, non è detto. Piazza S. Michele non è la piazza del Duomo, per il semplice motivo che S. Michele non è il Duomo. La cattedrale di S. Martino, insieme alla sua bella piazza, se ne sta un po’ appartata, aristocratica e silente, con l’abside distesa sul prato verde smeraldo come la prora di un bastimento a ridosso delle Mura. Per arrivarci bisogna tornare in piazza Bernardini, non tirar dritto in via S. Croce ma piegare a sinistra; imboccare l’arco di via del Gallo, veder sfilare le vetrine degli antiquari di via del Battistero fino a piazza Antelminelli, fino alla fontana circolare progettata dal Nottolini che guarda proprio il Duomo.
Piazza S. Martino: un altro centro, che custodisce come una cassaforte i gioielli più intimi e preziosi: il Crocifisso del Volto Santo, “verace immagine di Cristo”, che fece di Lucca una tappa fondamentale della Via Francigena; il monumento funebre di Ilaria del Carretto («Morte bella parea nel suo bel viso»), la statua di San Martino che taglia a metà il suo mantello per donarlo al povero. E c’è, sulla terza colonna dell’atrio, un misterioso labirinto scolpito a bassorilievo. Da ragazzo mi chiedevo cosa ci facesse quella serie di cerchi concentrici sulla soglia della cattedrale, e non trovavo risposta.
Ci sarebbe una terza piazza candidabile a centro di Lucca: l’ampia e squadrata piazza Napoleone; che, poco oltre piazza S. Michele, percorsa via Beccheria, squarcia di netto la trina medievale. Quel salone a guardia del Palazzo Ducale lo volle Elisa Bonaparte Baciocchi, sorella di Napoleone, per regalare alla città un lampo imperiale. Ma Lucca non si misura con il metro: questa grandeur che invita alla logica muove piuttosto alla sorpresa, estranea a un genius loci parsimonioso, conservatore, astuto e reticente, dove da sempre il potere più è forte, più è nascosto.
A forza di passeggiare sulle Mura da un baluardo all’altro, da un anno all’altro, a un certo punto smisi di interrogarmi su dove fosse il centro, smisi di chiedermi se fosse piazza S. Martino, piazza S. Michele, piazza Napoleone, o addirittura piazza dell’Anfiteatro che si apre, o per meglio dire, appare come un numero di prestidigitazione, nell’ultima parte del Fillungo. In questa piazza, a parte qualche frammento murario o moncone marmoreo, non c’è più traccia dell’edificio di epoca romana, e nell’Ottocento se ne stava perdendo anche la memoria. Ma Lorenzo Nottolini, architetto della duchessa Maria Luisa di Borbone, ebbe un lampo di genio: abbattere tutte le costruzioni più tarde, facendo così riemergere la perfetta ellissi originaria. Non più l’anfiteatro ma la sua idea, il suo ricordo. Il suo sogno.
Attraversando l’anfiteatro che non c’è, un giorno ripensai al labirinto circolare scolpito nell’atrio di S. Martino, e all’improvviso mi parve una presenza familiare; in fondo anche Lucca era fatta di tanti cerchi concentrici, e forse anche a Lucca, più ancora del centro, bisognava trovare l’uscita. Ma ci sarà stata?
Questo lo scoprii una notte d’inverno, a casa del professor Carlo Barsotti. Amato e temuto come può esserlo solo il professore di un liceo di provincia, Barsotti era l’anima del glorioso Circolo del cinema di Lucca, fondato negli anni Cinquanta. Le riunioni del cosiddetto direttivo – in realtà, un piccolo gruppo di amici cinefili di cui anch’io ero entrato a far parte – si svolgevano dopo cena nello studio del professore, unica vera stanza del suo appartamento di attempato scapolo di via Fillungo. Si rideva, si scherzava, si litigava su Alfred Hitchcock e su Ingmar Bergman, sulle personali e sui temi, sui cicli delle proiezioni passate e future. E si fumava. Passata la mezzanotte, prima dei saluti, il professor Barsotti apriva la finestra dello studio, cosa necessaria per disperdere la cappa di fumo, così di là dalle persiane spalancate appariva la facciata della basilica di S. Frediano con il suo grande mosaico bizantino, l’Ascensione di Cristo trasportato in Cielo da due angeli.
Quella notte mi affacciai nel gelido silenzio di gennaio, e quel mosaico su fondo oro mi sembrò il primo cinemascope della storia. In fondo le chiese sono le antenate dei cinema, pensai tra me; oppure i cinema sono gli eredi delle chiese, dipende dai punti di vista. Poi pensai alla generazione che nel dopoguerra aveva scoperto insieme alla libertà le stelle di Hollywood, Via col Vento e Ombre rosse, Citizen Kane (diventato in Italia Quarto Potere) e Colazione da Tiffany… e poi Hitchcock, Fellini, John Ford, tutti quei costruttori di sogni che in nessun altro luogo palpitano quanto nel buio di una sala di provincia. Per molti anni il cinema era stato davvero l’altrove; dove notoriamente risiede la vita. Guardando la facciata di S. Frediano, affacciato alla finestra del professor Barsotti, avevo trovato l’uscita dal labirinto. Se partii per Milano, lasciando per sempre la città dove sono nato, la colpa – o il merito – furono del cinema. Ma questo lo compresi molto tempo dopo.