Riscopriamo la geografia. Rimettere l'Appennino al centro

La fragilità dell'Appennino necessità di cure, per ricostruire il delicato tessuto delle relazioni umani e tornare a prendersi cura dell'ambiente montano

Le notizie che arrivano dagli Appennini di recente non sono buone notizie. Dalla valanga di Rigopiano, con 29 morti, a quella della Valle Majelama di quest’inverno, con quattro escursionisti sepolti. Dai sette giorni di fuoco che quest’estate hanno devastato il Parco Nazionale della Maiella al tentativo della Regione Abruzzo, bloccato dal Consiglio di Stato, di realizzare nuove piste da sci nel Parco Regionale Sirente-Velino. Un susseguirsi di eventi che porta a chiedersi: qual è oggi la percezione dell’Appennino?

L’Appennino è una catena montuosa che si estende come un lungo arco concavo verso il mar Tirreno dalla Liguria alla Calabria e oltre lo Stretto di Messina per circa 1.350 km. Per la loro conformazione geologica e geomorfologica gli Appennini rappresentano la spina dorsale della Penisola. Non solo, costituiscono anche un’importante “cerniera culturale”, crocevia delle civiltà e custode delle testimonianze storiche delle numerose genti che lo abitarono fin dalle epoche antiche. E queste comunità sono oggi, al pari delle specie animali e vegetali, un patrimonio fondamentale per comprendere l’estrema varietà degli ambienti naturali e antropici che nel corso dei secoli sono stati modellati lungo versanti e vallate. Una “diversità paesaggistica” che ha visto nelle attività agrosilvopastorali e nel rapporto sostenibile con le risorse naturali l’architrave del sistema socio-economico montano, costituendone un fattore distintivo e identitario. Nei secoli l’Appennino non è rimasto isolato, ma ha costruito un sistema di relazioni trasversali tra monte e costa, valle e pianura, diventando uno spazio aggregante e di interscambio culturale.

Tuttavia dall’Unità d’Italia e fino al secondo dopoguerra si è assistito al costante “svuotamento” dei territori appenninici. Il depauperamento demografico ha prodotto conseguenze sociali ed economiche pesanti: l’emorragia dei giovani ha portato non solo alla mancanza di forza lavoro, ma anche di innovazione e ricambio culturale. L’abbandono dei villaggi in quota verso il fondovalle, la dismissione di pascoli e aree coltivate hanno determinato l’espansione incontrollata della superficie forestale, la riduzione delle aree produttive e, soprattutto a bassa quota, l’aumento del consumo del suolo a scopo urbano. Tutto questo ha causato il moltiplicarsi dei fenomeni franosi e di dissesto idrogeologico, in un’area già caratterizzata da elevati livelli di sismicità. E il processo è proseguito anche in anni recenti: un’indagine dell’Ispra con Slow Food e UniMolise ha mostrato che negli ultimi 40 anni il 77 per cento dei Comuni montani è stato interessato da fenomeni di contrazione della popolazione giovanile, contrastata solo in parte dall’immigrazione straniera, il tutto in un quadro di costante invecchiamento. Lo spopolamento ha determinato lo smantellamento del sistema produttivo e socioculturale oltre a una perdita dei valori tradizionali delle comunità.

È avvenuta una frattura sia del sistema integrato di relazioni sia dell’equilibrio dei sistemi ambientali. E una progressiva marginalizzazione rispetto al sistema economico che ha concentrato investimenti e risorse in aree più accessibili e produttive, come la pianura. Per certi versi abbandonata al suo destino, privata delle sue energie primitive, la montagna appenninica è diventata oggetto di una speculazione che parte dalla pianura. E si presenta oggi come un territorio da conquistare e adattare a volontà che spesso mal si conciliano con le fragilità e le complessità di queste terre. È necessario ricomporre la frattura che si è creata tra pianura e montagna, superare i marginalismi, uscire dalla logica di subalternità e “conquista” e riavvicinare a queste montagne risorse, competenze e intraprendenze sepolte. Recuperare e ripartire dal quel «patrimonio di bio-diversità e di diversità culturale», puntando sui valori della sostenibilità ambientale, delle relazioni umane e dell’appartenenza ai luoghi, se si vuole riaffermare quel ruolo di “dorsale” che da sempre spetta agli Appennini. *segretario nazionale Aiig

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