di Tino Mantarro | Foto Archivio Tci
C'è stato un tempo non troppo lontano in cui Kabul era una delle mete preferite degli Hippye sulla via dell'India. Poi quarant'anni di guerre hanno cancellato quell'epoca liberale
La storia è come il vento e la fortuna, fa il suo giro. Solo che alle volte quel giro è bello lungo. Fino a circa 40 anni fa l’Afghanistan era una destinazione turistica, non di massa, ma con una cospicua nicchia di giovani che transitavano da Kabul sulla strada dell’illuminazione che aveva come destinazione finale l’India e Kathmandu, allora città-palazzo capitale di un regno fortemente tradizionalista che si raggiungeva dopo mesi mesi di strade e di polvere. Questi giovani irrimediabilmente barbuti e smagriti erano un po’ vagabondi dell’anima. Rosi dal tarlo della strada viaggiavano via terra sulle rotte non ben definite dell’Hippy Trail, quel viaggio iniziatico che dagli anni Cinquanta, e poi con maggior frequenza negli anni Settanta della contestazione, portava ventenni alternativi e aspiranti tali a cercare qualcosa di diverso dalla cultura occidentale, o solo a cercare un’avventura prima della vita adulta.
Kabul e l’Afghanistan costituivano una tappa obbligata su questa rotta della felicità. Del resto per secoli questa terra segnata dall’Hindu-Kush e dalle sue montagne oltre i settemila era stata un punto di passaggio assai trafficato dai mercanti che si spingevano lungo i rami meridionali della Via della Seta. Passavano tra queste montagne brulle per poi scavallare il passo Khyber, che con i suoi mille metri di altitudine metteva facilmente in contatto l’Asia centrale e il Subcontinente indiano. Una rotta già battuta da Alessandro Magno e Tamerlano che dal 1979 è quanto più difficile ci sia al mondo da percorrere. Nel dicembre di quell’anno i militari sovietici passarono oltre l’Amur Darya, il mitico Oxiana dell’antichità che separa Uzbekistan e Afghanistan, in soccorso del governo filosovietico instaurato a Kabul. Fu l’inizio della fine. Da quel momento l’Afghanistan non ha più avuto pace. Prima i dieci anni di guerra antisovietica, con i vari khan e mullah a imbracciare le armi – che nel Paese è l’unica cosa, insieme alla droga, che non è mai mancata – per respingere l’invasore che voleva imporre la modernizzazione socialista a una società tradizionale, mai colonizzata da nessuno, e riluttante al cambiamento.
Le immagini che illustrano queste pagine, tratte dall’Archivio Touring, sono della metà degli anni Cinquanta e raccontano proprio questo: una società tradizionale radicata nei suoi costumi e nella sua fede, l’Islam. Una società divisa in una miriade di gruppi etnici che parlano lingue di cinque ceppi differenti (turco, persiano, pasthu, indoariano e indodravico), un Paese dove le comunità sono riconducibili a famiglie e clan, dove l’economia per decenni si è basata sulla coltivazione e l’esportazione dell’oppio nonostante il sottosuolo sia ricco di minerali non sfruttati. Una società che – dopo la cacciata dei sovietici simbolicamente rappresentata dalla fotografia che ritrae l’ultimo carro armato con la stella rossa che si lascia alle spalle il ponte dell’Amicizia costruito sull’Amur Darya – è caduta in una guerra civile che ha portato, nel 1996, all’instaurarsi del regime telebano e all’imposizione della purezza della lettura del Corano e le regole della tradizione pashtun a discapito delle altre minoranze, prime tra tutte gli hazara sciiti. Poi è arrivato l’11 settembre ed è successo quello che tutti sappiamo. La guerra che qualcuno voleva fosse “tra il bene e il male” ha di nuovo devastato il Paese, esportando una democrazia tanto fragile quanto di facciata, crollata al primo soffio di vento quando qualcuno ha deciso che non aveva più senso investire miliardi di dollari in questa terra disgraziata, considerata irredimibile e quindi sacrificabile. E così siamo a oggi, con le scene di chi all’aeroporto di Kabul cerca di salire sull’ultimo aereo utile per abbandonare il Paese tornato in mano ai talebani. Che forse non saranno più quei giovani fanatici e un po’ ignoranti, armati di kalashnikov e sacro zelo religioso di qualche anno fa – il beneficio del dubbio va concesso a tutti –, ma incutono lo stesso un po’ (tanto) di timore.
I ragazzi che andavano a Kabul negli anni Settanta si incontravano nelle sordide pensioncine intorno a Chicken street. La via che, come gli Champs-Élysées o il Paseo del Prado a Madrid, in città era il posto dove andare. La via c’è ancora, è un’infilata di bottegucce di tappeti e anticaglie avvolta da odori di spezie. C’è di tutto, l’unica cosa che non si è mai trovata sono i polli. Le pensioncine invece sono sparite da 40 anni e chissà quando torneranno: la storia ancora non ha finito il suo giro.