di Tino Mantarro | Fotografie di Claudio Cescutti
Per attirare turisti, la città del Friuli-Venezia Giulia si è ritagliata un originale spazio nel panorama culturale grazie a festival, cinema, musica, fumetti...
Se penso a Pordenone mi viene in mente una scena di Caro Diario di Nanni Moretti. Nel primo episodio Moretti gira in Vespa per una solitaria Roma agostana e arriva fino ai confini di Spinaceto, quartiere periferico allora costruito da poco e sempre inserito nei discorsi per parlarne male. Gli dà una sbirciata sommaria e poi sentenzia: «Bè, Spinaceto: pensavo peggio. Non è per niente male». Di Pordenone non pensavo peggio, semplicemente non pensavo.
Siamo onesti: discosta rispetto alle principali direttrici viarie la città del Friuli-Venezia Giulia non è uno di quei posti dove capita di passare, a meno che uno non abbia interessi nell’industria delle lavatrici. Tantomeno è una destinazione che viene in mente per un weekend nel Nordest. «Eppure quando ero bambina ogni volta che andavamo al mare, specie al Sud, e dicevamo di essere di Pordenone erano sempre grandi feste e colazioni offerte – ricorda Sarah Gaiotto, ufficio stampa per una casa editrice –. Tutti erano stati qui per il servizio militare». Ma non avendo servito la Patria non avevo idea né di come fosse, né di cosa aspettarmi. Così se c’è una parola che mi viene da usare per riassumere Pordenone è inaspettata. E anche insospettabile. Già, perché uno non sospetta che questa cittadina dal ricco passato industriale, per anni nota solo ai cultori del punk o del cinema muto – non certo masse –, sia invece un centro culturale attivo e di prim’ordine. «È uno di quei posti cui calza bene la definizione di “tranquilla cittadina di provincia”» conferma Elisa Cozzarini, che alla sua città ha dedicato una corposa guida narrativa edita da Odòs. «Mi dicevo: ora che cosa scrivo? E invece l’ho riscoperta ricca e densa di appuntamenti».
Quando arrivi in città tra le prime cose che ti spiegano è che qui non è proprio Friuli, ma più che altro “destra Tagliamento” – ovvero un poco Friuli sì, ma anche Veneto. Ma soprattutto raccontano la sua storia recente senza cui non puoi capire dove sei finito. «A fine Ottocento era considerata la Manchester d’Italia, con i cotonifici i cui edifici in mattoni abbandonati svettano aldilà del Noncello, mentre negli anni Settanta grazie alla Zanussi la città esportava più lavatrici di tutta la Germania Ovest», spiega Cozzarini. «Quello legato all’industria del “bianco” è stato uno snodo fondamentale. Lo sviluppo economico dovuto alla Zanussi, oggi Electrolux, ma anche alle ceramiche Galvani e alle macchine tessili della Savio, faceva di Pordenone il secondo polo metalmeccanico d’Italia. Tutto questo fece crescere la città, che raddoppiò gli abitanti. La popolazione ringiovanì con l’afflusso di quadri aziendali da ogni parte d’Italia che cercarono nella cultura uno sfogo al diffuso provincialismo» spiega Claudio Cattaruzza, presidente dell’associazione culturale Thesis.
E oggi il turismo nascente punta proprio sulla cultura. «È la carta vincente della città, il nucleo su cui si basa l’autopercezione odierna. Anni di eventi, magari non coordinati tra loro e spontanei, hanno sedimentato l’abitudine a un’offerta culturale di livello per una città di 50mila abitanti. Non c’è sera dove non accada qualche cosa» spiega Cataruzza. E dire che non è mai stata neanche città universitaria, anche se oggi c’è un consorzio che ospita corsi decentrati di università del Nordest. Eppure negli ultimi vent’anni Pordenone si è ritagliata un suo posto d’onore tra le città della cultura in Italia. «Di sicuro Pordenonelegge ha progressivamente cambiato il panorama culturale: la città non ospita il festival, si identifica con esso» spiega Daniele Zongaro della libreria QuoVadis. Dedicata al viaggio, è una delle cinque librerie rimaste in una città in cui, come in tutto il Nordest, si legge molto. «Dal 1998 c'era una fiera del libro legata alla librerie locali. Fiera che nel 2000 è diventata un festival letterario, Pordenonelegger, grazie a un’intuizione del presidente della Camera di commercio, Augusto Antonucci, che voleva attirare l’attenzione sulle potenzialità turistiche e culturali della città» spiega Michela Zin, direttore della Fondazione Pordenonelegge. L’evento ha avuto la fortuna di nascere negli anni del boom dei festival culturali, arrivando a imporsi, dopo Mantova, come centrale tra quelli dedicati ai libri. «In quei giorni c’è un’atmosfera bellissima, le vetrine, le piazze, anche le signore eleganti si vestono di nero e giallo che sono i nostri colori» prosegue Zin. «È sempre stato un evento pensato per il pubblico, non per addetti ai lavori. È cresciuto perché abbiamo sempre portato avanti una politica di ricerca di autori non ancora affermati ma che ci piacevano» commenta Gian Mario Villalta, direttore artistico dell'evento. Tutto questo crea un’atmosfera diversa. «La nostra fortuna è la dimensione ridotta della città: gli autori si trovano bene, quasi a casa, senza essere assediati. Tanti chiedono di tornare».
E poi, a Pordenone con la cultura si mangia. «A parte aver messo il nome della nostra città sulle mappe, l’evento ha una ricaduta economica sul territorio pari a nove volte gli investimenti» spiega Zin. Ed è servito per dare una scossa in anni in cui l’economia traballava. «Tutti si sono detti: se a Pordenone viene un premio Nobel, allora perché non possiamo pensare in grande?» sostiene Villalta. Se Pordenonelegge ormai è la corazzata che richiama le folle, Dedica festival è la chicca che va oltre il consumo letterario «Siamo un evento eclettico e unico in Italia, concentrato ogni anno sull’opera di un’unica personalità della cultura internazionale, la cui opera viene declinata in tutte le arti, dal teatro al cinema» racconta l’ideatore, Cattaruzza. «Nasce come festival del teatro di ricerca, dal 1998 si è trasformato in quello che è oggi, una finestra per far conoscere un autore. Negli anni sono passati Antonio Tabucchi e Amos Oz, Paul Auster e Luìs Sepulveda».
In quegli anni a ravvivare l’atmosfera di una cittadina di provincia non era solo il punk, ma anche il cinema. Nel 1978 nacque un cineclub che ha avuto un destino diverso rispetto ai tanti nati in quel periodo. «Non c’erano sale che facessero una programmazione culturale d’essai, e allora si fondò l’associazione Cinemazero, perché la città cinematograficamente era zero» spiega Riccardo Costantini, responsabile eventi. Da allora di strada ne hanno fatta e oggi Cinemazero è un multisala di qualità con tre schermi e una programmazione eclettica. «Ma è anche una mediateca assai frequentata, creata per favorire la diffusione della cultura dell’audiovisivo e al servizio della comunità» spiega Elena D’Incà, responsabile della Mediateca che si affaccia su piazza Cavour. Cinemazero organizza le Giornate del cinema muto, un evento di nicchia nato nel 1982 in collaborazione con la cineteca del Friuli di Gemona che possiede una ricca collezione di pellicole dei primordi del cinema. «Erano state acquisite nel periodo del terremoto, quando si volevano fare proiezioni itineranti nelle tendopoli ma per scarsità di fondi non riuscirono a prendere che pellicole di film muti dagli Stati Uniti» racconta. Da allora è diventato uno dei più importanti appuntamenti internazionali del genere. «In quei giorni c’è un’atmosfera sognante, la città si riempie di cinefili che si chiudono in sala a guardare ore e ore di film muti accompagnati da piano e orchestra» spiega. E poi organizzano il Pordenone Doc Fest, che si concentra sulle pellicole d’inchiesta. Ma il ruolo che Cinemazero rivendica è culturale a 360 gradi. «In tutti questi anni abbiamo cercato di diventare un animatore culturale, educando e provando ad alzare ogni volta l’asticella – prosegue Costantini –. Abituando le persone alla fruizione della cultura con un lavoro di fidelizzazione: i padri vengono al cinema con i figli, e i figli vengono in Mediateca a recuperare vecchi film». Abitudini da metropoli in una città che metropoli non è.
«Qui c’è un po’ quell’atmosfera asburgica che si respira appena a est della stazione di Mestre» dice Alessandro Venier, che lavora alla casa editrice Bottega Errante, nata nella libreria QuoVadis e specializzata in letterature balcaniche e nel racconto dei luoghi. Il centro è minuto, raccolto intorno a corso Vittorio Emanuele II che inizia nei pressi del Duomo (al cui interno si trovano i grandiosi affreschi del Pordenone) con i suoi palazzi veneziani ricordo di quando la città sul Noncello era il porto più a nord del sistema lagunare da cui le merci venivano instradate verso l’Austria. L’atmosfera è quella di un luogo vivo e vissuto, da provincia sana e benestante, con un profluvio di tavolini all’aperto e un tessuto di piccoli negozi che resistono ai centri commerciali, un signor mercato del sabato e molto verde, specie intorno al fiume. Fuori dal centro dimostra di essere cresciuta troppo in fretta negli anni peggiori dell’architettura italiana, con poca coerenza urbanistica cui oggi si cerca di porre rimedio creando ciclabili e spazi verdi. «Si vive bene a Pordenone – dice Stroppa –. L’unico problema è che sta in una conca, e le nuvole si fermano tutte qua. Ma sei a metà tra mare e montagna, fuori mano ma in definitiva a un’ora da Venezia e poco più da Trieste, c’è lavoro e tanta, tanta cultura». Eppure – conferma ogni persona cui chiedi – quando arrivano i turisti la gente ancora stranisce e si domanda: che cosa vengono a vedere? Forse non vengono a vedere, ma a fare.