di Giuseppe Scaraffia
Nel 1939 le scrittrici elvetiche Annemarie Schwarzenbach ed Ella Maillart si avventurarono in auto in Asia, fino a raggiungere l’Afghanistan e Kabul
Al confine tra l’Iran e l’Afghanistan nessuno controllò la Ford 18 e le due passeggere: Annemarie Schwarzenbach e Ella Maillart e i loro certificati di vaccinazione per il colera che infuriava nella regione. Erano partite dalla Svizzera per lasciarsi dietro la tempesta che in quel 1939 si stava addensando sull’Europa. Malgrado fossero entrambe scrittrici, erano molto diverse, anche fisicamente. Fragile, elegante negli abiti di taglio maschile, Annemarie veniva da una ricchissima famiglia svizzera, da cui aveva cercato di staccarsi grazie all’amicizia con due turbolenti figli di Thomas Mann, Erika e Klaus che l’avevano iniziata alla morfina e alla vita notturna. Sportiva, viaggiatrice, fotografa e giornalista, Ella sperava di guarire la sua compagna dalla dipendenza dalla droga.
Non c’erano strade ma semplicemente piste su cui incrociavano solo camion malandati, carichi di merci e passeggeri. Il “vento dei centoventi giorni”, caldo e turbolento aveva bloccato l’auto imprigionandola in una duna alta trenta metri. Ne erano uscite solo grazie a una loro invenzione: delle guide metalliche che consentivano alle ruote di percorrere due metri alla volta. Un lavoro pesante sotto un sole ostinato, bevendo l’acqua tiepida della borraccia inquinata di sabbia. Se non era la sabbia, l’altra insidia era il fango, ma lì le catene da neve riuscivano senza troppi problemi. Timidi e gentili, gli afghani offrivano dei meloni a quell’inedita coppia di donne vestite da uomo. A Herat rimasero affascinate dallo splendore delle rovine, ma quando un ponte di terra crollò sotto il peso della loro vettura ci volle un gruppo di giovanotti per rimetterla in strada. Non era stato facile, ma i salvatori rifiutarono fieramente la mancia.
Malgrado fossero state messe in guardia, le due decisero di proseguire lungo l’antica Via della Seta. Imboccarono quella che ormai era una mulattiera chiusa al traffico, scortate da un governatore preoccupato per loro. A Mazar-i Sharif, in un caravanserraglio adibito a garage, un gruppo di camionisti in lunghe tuniche svolazzanti si era avventato sulla Ford, furono salvate solo dall’intervento di un anziano meccanico dalla lunga barba bianca. Quando rimasero senza carburante – le pompe di benzina erano rare – furono soccorse da un cavaliere con due taniche rosse. Si sfamavano in capanne d’argilla, chiamate case da tè, disposte lungo il percorso. Ammirarono insieme i giganteschi Buddha di Bamiyan, dove un anziano poeta cieco recitò loro i versi di poeti dimenticati.
Ma a Kabul quell’angelo devastato, come l’aveva chiamata Thomas Mann, colpito dalla sua bellezza androgina, si separò dall’amica. Annemarie non poteva rinunciare alla droga, all’alcol e all’infelicità che la seguivano come un’ombra. «Il viaggio che a molti appare come un bel sogno, un gioco seducente, la liberazione dal quotidiano, la libertà per eccellenza, in realtà è impietoso, una scuola per abituarci all’inevitabile corso della vita, all’incontro e alla perdita».