Saul Steinberg. Un americano in Galleria

Saul SteinbergEvelyn HoferSaul SteinbergSaul SteinbergSaul SteinbergSaul SteinbergSaul Steinberg

La rocambolesca vita e l’avventura artistica di un geniale illustratore e artista rumeno, laureato in Italia e poi finito sulle copertine del New Yorker. Ora in una grande mostra alla Triennale nella “sua” Milano

Iniziano a chiacchierare sul tetto per poi proseguire nel “laboratorio per fare da mangiare” (come lui chiama la cucina) e poi al tavolo di lavoro di Steinberg, che poi è anche dove pranza e cena. «Qui alle pareti ci sono dei quadri, una specie di collezione fatta con scambi tra amici con l’eccezione di questo falso Mondrian che ho fatto io. Voleva essere una sorta di omaggio a Mondrian che è un amico; ho cercato di impersonarlo con l’illusione che non sia completamente falso perché l’ho fatto io», racconta Steinberg illustrando il piccolo appartamento incastrato in quello che lui stesso definisce un labirinto per minotauri (la città di New York e i suoi condomini infiniti). È proprio entrando in questa intimità che l’universo steinberghiano emerge in tutta la sua complessità, oltre carta e inchiostro. Il video è la conclusione del percorso espositivo della mostra a lui dedicata alla Triennale di Milano allestita fino al 13 marzo, curata da Italo Lupi, Marco Belpoliti e Francesca Pellicciari. Mostra che vuole essere un omaggio all’artista, ma anche a Milano, la città che l’ha formato, almeno per un periodo. È qui infatti che approda dalla Romania, nei primi anni Trenta per studiare architettura al Regio Politecnico, ed è frequentando il vivace ambiente intellettuale cittadino che ruota intorno alla zona di Città Studi e al bar Grillo che muove i primi passi nel mondo dell’illustrazione. Conosce Aldo Buzzi, Alberto Lattuada, Cesare Zavattini, Giovanni Guareschi che lo tirano letteralmente in mezzo nella realizzazione del bisettimanale umoristico Bertoldo.

Ed è solo l’inizio di un viaggio che proseguirà per decenni. Si innamora dell’Italia nonostante il periodo storico, tanto da ritrarne i paesaggi, i personaggi, le situazioni quotidiane con una precisione quasi chirurgica, sempre decisamente ironica. Non perde l’ironia nemmeno quando, nel 1938, entrano in vigore le leggi razziali e rischia l’espulsione. Riesce però a terminare gli studi (sul diploma di laurea se ne sottolinea la “razza ebraica”), continua a disegnare ma viene anche arrestato e confinato (non perde l’occasione di disegnare la sua cella a San Vittore in tutto il suo splendore). È a quel punto che capisce che è meglio lasciar perdere e si trasferisce negli Stati Uniti dove si arruola nella Marina e viene assegnato ai servizi di intelligence, per i quali viaggia dall’Indocina al Nordafrica per tornare poi in Italia. Nella foto che lo ritrae in quel periodo in divisa sembra un po’ una via di mezzo tra una spia e un personaggio di Bastardi senza gloria, film di Quentin Tarantino: affascinante ma sbagliato in qualche modo rispetto al contesto. Però il suo apporto allo sforzo bellico è concreto e personale: realizza vignette antinaziste, opuscoli per l’esercito e disegni per il New Yorker che, visti oggi, sembrano molto più efficaci e diretti di mille discorsi politici. «Il disegno per me è molto vicino alla poesia che usa parole comuni per spiegare cose molto complesse... è un modo di espressione preciso», spiega a Zavoli. Con la fine della guerra la sua carriera esplode, con mostre, pubblicazioni, libri in un crescendo professionale che lo riporta anche a Milano, nel 1954, in occasione della X Triennale, dove realizzerà il Labirinto dei bambini, un racconto per immagini su un’architettura dei suoi amici Enrico Peressutti, Ludovico Belgiojoso e Ernesto Nathan Rogers, quello studio BBPR che sta trasformando e modernizzando la città. I disegni preparatori (leporelli), lunghi fino a dieci metri, raccontano l’Italia del Dopoguerra ma sono anche bozze dei temi e segni artistici, inclusa la sua inconfondibile linea, che Steinberg poi sviluppa nel resto del proprio percorso artistico.

Dagli anni Sessanta in poi è un crescendo continuo, d’altronde è una figura decisamente unica nel panorama americano. Innanzi tutto è europeo, poi per studi sarebbe un architetto, ma è un disegnatore che però innegabilmente è anche un artista. Lo sa bene anche lui tanto da dichiarare: «Non appartengo propriamente né al mondo dell’arte, né ai fumetti, e nemmeno a quello delle riviste, perciò il mondo dell’arte non sa bene dove piazzarmi». I suoi ghirigori diventano iconici come alcune delle sue copertine per il New Yorker riprodotte all’infinito superando contesti e momenti storici (ne realizza in tutta la carriera 85, un record, a cui si aggiungono più di 600 illustrazioni). Ogni disegno è filosofia immediata o, come li definisce un altro maestro di pennino, Art Spiegelman, “aforismi visivi”. Un approccio che sembra semplice, lineare appunto, ma che si rivela multistrato e dalle molteplici letture, dietro il quale Steinberg si nasconde e si svela a seconda dei momenti. «L’unico modo per essere liberi è essere invisibili», dice durante il colloquio con Zavoli, e si spiega meglio prendendo un foglio di carta per realizzare una delle sue maschere davanti a cineoperatori e microfonisti divertiti e curiosi. Lo taglia in molti pezzi fino a quando, con la misura perfetta, lo piega, ne toglie un pezzo al centro e se lo pigia sul naso. «Io credo che il naso sia la parte del corpo più primitiva, originale e privata. È la parte meno evoluta della faccia. Io uso il naso come momento veridico». E allora prende il foglio e se lo mette in faccia. Una piccola performance a favore della troupe e degli spettatori con al centro una maschera con protagonista il naso, l’elemento più onesto come dice lui. Ma forse sta prendendo tutti per il naso, e ci starebbe perfettamente nello stile di Steinberg.

Nel corso della sua vita le maschere sono diventate gioco e provocazione, come quelle poi ritratte dalla fotografa Inge Morath, un’altra amica preziosa, e realizzate con sacchetti di carta che raffiguravano i diversi tipi sociali dell’America: «Le città sono uno schedario, conoscendo la strada di una persona si sa già subito la condizione sociale in cui vive. Il bello è che i cittadini sono diventati esperti in questo stile di vita: sono professionisti del vivere lungo la colonna di un ascensore... Negli Stati Uniti la vita è veramente quella cosa penosa che dobbiamo sopportare», una visione cupa che ben si confà all’immagine del disegnatore ironico e sardonico newyorkese ma di origine europea. Visione doppia che utilizzerà spesso nelle sue storie e descrizioni. Milano e New York vengono confrontate di frequente, la prima spesso vince nella sua personale classifica di preferenze, e dire che, tra le città italiane, sarebbe quella che più aspira al titolo di New York nostrana. Steinberg inorridirebbe probabilmente al pensiero e penserebbe invece all’eleganza sofisticata delle signore di Milano e alle maschere fatte di trucco e gingilli indossate da quelle della Grande Mela, alla bellezza dirompente della Galleria Vittorio Emanuele così diversa dai labirintici caseggiati di Manhattan. Lo penserebbe o lo disegnerebbe. Anzi, l’ha già fatto.

Foto di Saul Steinberg
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