Reggio Calabria. Lo stile dello Stretto

Luigi VitaleLuigi VitaleLuigi VitaleLuigi VitaleLuigi VitaleLuigi VitaleLuigi VitaleLuigi VitaleLuigi Vitale

I 50 anni dal ritrovamento dei Bronzi: un’occasione per scoprire una città ricostruita dopo il terremoto dalle archistar del primo ’900

La sorpresa dei viaggiatori dell’Ottocento è pure quella dei turisti di oggi:  il lungomare di Reggio Calabria è unico anche grazie alle luci della Sicilia, all’Etna che incombe come il Kilimangiaro, ai venti che si incrociano e rendono  lo Stretto ora il mare tempestoso dei naufragi, ora fiume, ora lago.  È la scoperta di una città ricostruita in stile liberty ed eclettico dal mare in su per le prime cinque-sei traverse, dopo il terremoto che la devastò, nel 1908. È un orto botanico a cielo aperto, una location per selfie e innamorati, gli sposi invece si mettono in posa sotto le palme. La sorpresa è quella di trovare un posto così scenografico e ben tenuto in una città stroncata dai luoghi comuni, con troppo cemento nella sua parte alta e panoramica, una vista spettacolare per esempio dall’Università Mediterranea che domina lo Stretto, e le colline da dove si vedono le Eolie.  È Reggio, una città che fu distrutta per il 95 per cento dal sisma, e ha avuto poi una evoluzione non coerente. Ripensata in forma squadrata e regolare, superata la concezione medievale che la faceva vivere intorno al Castello, fu protagonista di una ricostruzione virtuosa negli anni Venti. Non mancarono certo gli scandali e gli sprechi. Le baracche in legno sopravvissero fino agli anni Sessanta. Ma la via Marina è sempre rimasta un gioiello. Rispetto alla dirimpettaia sullo Stretto, Reggio ha mantenuto lo sguardo aperto e le panchine rivolte al mare. Grazie all’interramento della ferrovia di fine secolo, può contare oggi su otto chilometri di waterfront e piste ciclabili, direttamente collegate al centro della città: e i bambini non hanno bisogno di verde, perché il loro verde è il blu. Non so se Italo Falcomatà, il sindaco della rinascita troppo presto scomparso, si ispirò alla Barcellona olimpica per questa operazione, che riuscì a vedere compiuta insieme all’allora presidente della Repubblica Ciampi. Il risultato è una città – come la metropoli catalana – aperta al mare. Le piante trovano qui il loro clima ideale. La strelitzia regna e regala fiori arancioni o bianchi. Le palme, i ficus, i pini marittimi, le magnolie, gli eucalipti, gli oleandri resistono al vento. Come quei lampioni di inizio Novecento che una città francese voleva acquistare per abbellire il suo lungomare. L’aloe, così alla moda oggi, protegge da cento anni i monumenti. Sulle enormi radici del fico magnolioide si siedono i ragazzini, per il tempo di una foto. Sono piante secolari, arrivano da tutto il mondo. Le scale e l’anfiteatro si tuffano in mare, molti reggini mettono il costume, o il giubbotto per la vela, in pausa pranzo. Quello che forse D’Annunzio chiamò “il più bel chilometro d’Italia” (ma anche su questa frase il dibattito è rovente) oggi è il biglietto da visita di una città nota a torto solo per la cronaca nera. 

Daniele Castrizio, che è un professore universitario nonché studioso dei Bronzi di Riace, suggerisce di visitarla anche con il naso all’insù. «Per esempio, in via Roma, c’è una scritta in greco su un palazzo: MIKRÀ OIKIA MEGÀLE ESYCHÌA, piccola casa, grande serenità». Altrettanto fascino ha Palazzo Miccoli-Bosurgi, all’incrocio fra via Arcovito e via Tagliavia, costruito intorno al 1930. Molti reggini non conoscono questi angoli (altri sono colpevoli per averli rovinati con qualche sopraelevazione). Per fortuna, il club di Territorio del Touring è un faro sulla città, che si tratti di parlare del Museo Archeologico o degli uccelli migratori che attraversano lo Stretto. E sui social nascono gruppi come Articolo 118.RC che predicano l’impegno e l’attenzione, e hanno restituito alla città la maestosa scalinata di via Giudecca, così preda del degrado che i cittadini l’avevano dimenticata, non ci passavano più e preferivano prendere l’auto. Perché questa è una città piena di scalinate, e non ci vorrebbe molto a valorizzarle, come ha fatto Selaròn a Rio de Janeiro.  Reggio è così, specchio della Calabria in bianco e nero. I panorami struggenti e i rifiuti, il verde profondo e lo stabile instabile e non finito. Il sacco edilizio degli anni Sessanta l’ha resa meno bella: ma tutta la zona del centro e del lungomare resta l’orgoglio dei cittadini, anche per la sua armonia. In contraddizione con quello che Corrado Alvaro scrisse della Calabria: «Qui la bellezza è pura geologia».   Livio De Luca, architetto e oggi coordinatore del cantiere digitale di Notre-Dame, parla di una città con una dimensione realmente virtuale: «Il posto dove da universitario ho passato gli anni più belli della mia vita. Dove nascono i sogni e i miti. Penso a Scilla e Cariddi,  luogo così tempestoso e feroce nella leggenda, nell’Odissea e nella Divina Commedia, così splendente anche in inverno. O alla Fata Morgana, quel fenomeno ottico che ho sempre sperato di osservare, ma che purtroppo ho potuto solo immaginare. Penso all’eterno dibattito sul Ponte, anche quello sempre e solo da immaginare nelle ore passate a contemplare lo Stretto». In via Marina coesistono epoche e strati che attraversano i millenni. In Calabria la storia ha resistito ai terremoti, alle alluvioni che spostano i paesi e che deportano gli abitanti. Reggio è stata ricostruita dopo il 1783 e il 1908. Ma il suo sottosuolo e il suo mare hanno continuato a regalare sorprese, come racconta il direttore del Museo Archeologico Carmelo Malacrino. Può anche capitare di trovare mura ellenistiche in mattoni crudi ancora ben conservate in mezzo ai palazzi della Collina degli Angeli, nella parte alta della città. E si dice che il dipartimento di archeologia subacquea del Ministero abbia finalmente ottenuto i soldi per riavviare le ricerche dentro un relitto greco pieno di anfore a cinquanta metri di profondità, all’altezza dell’Anfiteatro.

Ci sono tombe a camera ellenistiche sul modello di quelle macedoni anche sulla via Marina. «E le piccole terme romane che furono la delizia di un reggino facoltoso» aggiunge Castrizio. Con tante irruzioni di contemporaneo: le sculture moderne di Rabarama in mezzo ai prati intoccabili, e soprattutto la recentissima Opera di Edoardo Tresoldi: 46 colonne in rete metallica alte otto metri. Che fanno intravedere le luci di Messina, non cancellano la Sicilia ma danno trasparenza e profondità. I reggini le hanno visto nascere con sospetto, ora Opera fa parte del panorama. Guido Talarico, editore di Inside Art, catanzarese come Mimmo Rotella, ama Tresoldi: «Riesce a proiettare nel presente e nel futuro i lasciti della grande tradizione classica. Usa un linguaggio contemporaneo, per restituire a nuova vita tesori del passato. Le sue gabbie elettrosaldate sono un magnifico espediente scenico per farci immergere in architetture scomparse. Quelle colonne fanno sentire a casa i Bronzi». E veniamo a loro, quello A e quello B, il guerriero e l’austero, uno aveva una lancia e l’altro un elmo. Così diversi che sembra ci sia un dialogo fra loro. Valgono da soli una visita di Reggio, ma l’errore sarebbe la toccata e fuga. Come loro, quasi nessuno al mondo, perché le statue si facevano di marmo, e a volte era il marmo che veniva da un bronzo, ma sappiate che altri particolari li rendono unici: gli occhi di quarzo, i capezzoli e le labbra in rame, i denti in argento della statua A. Hanno circa 2.500 anni, la terra di fornace che hanno riportato ci dice che nacquero ad Argo, e poco più. Resta il mistero su come finirono in quella spiaggia di Riace battuta dal vento. Per ammirare i Bronzi, si scopre che il Museo Archeologico di Reggio non è fatto solo dei due giganti ma racconta l’evoluzione plurimillenaria di una città.  Una città che è stata greca, romana, bizantina, normanna, spagnola. Per scoprire il Museo prendetevi tempo. La degna conclusione prevede un passaggio dentro una camera di decontaminazione. Preparatevi un tuffo al cuore, poi godetevi la collezione: la varietà delle interpretazioni e delle reazioni fa la bellezza dell’arte, inutile aggiungere altro.  Sulla piazza davanti al Museo, le polemiche sono invece in prima pagina. La Sovrintendenza ha presentato un progetto, alcune associazioni lo hanno criticato, ma è obbligatorio trasformare la zona in isola pedonale.  L’idea del sovrintendente Salvatore Patamia è quella di completare l’armonia delle quattro piazze che costellano il Corso: De Nava, Italia, Duomo e Garibaldi. Qui è venuta alla luce una tomba della Roma imperiale: gli archeologi dicono che potrebbe essere quella di Giulia, figlia di Ottaviano Augusto, che a Reggio fu mandata in esilio e morì.  Ormai superato il rischio dissesto, il Comune dovrebbe anche porre attenzione al Lido, in cui svetta un’opera disegnata da Pier Luigi Nervi. Un altro sogno nel cassetto è il Museo del Mediterraneo firmato da Zaha Hadid, prima stoppato e ora riavviato. Di certo, Reggio può vivere di nuovi sogni.

 

 

Foto di Luigi Vitale
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