Controcanto. Nella reggia sul Monte Faito

La reggia Quisisana a Castellammare di Stabia (Na)

«Un cavalier, chiamato Messer Neri degli Uberti, con tutta la sua famiglia e con molti denari uscendone (da Firenze), non si volle altrove che sotto le braccia di re Carlo riducere. E per essere in solitario luogo e quivi finire in riposo la vita a Castello a Mare di Stabia se ne andò; e ivi forse una balestra rimosso dall’altre abitazioni della terra, tra ulivi e nocciuoli e castagni, de i quali la contrada è abondevole, comperò una possessione, sopra la quale un bel casamento e agiato fece, e allato a quello un dilettevole giardino nel mezzo del quale, avendo d’acqua viva copia, fece un bel vivaio e chiaro, e quello di molto pesce ri empiè leggermente». Giovanni Boccaccio, Decamerone, VI novella, X Giorno; 1349-1353 
 
La Guida Rossa Napoli non dedica molto spazio alla Reggia Quisisana fuori Castellamare, alle pendici boscose del monte Faito. Si limita a ricordare che le origini risalgono a Roberto D’Angiò: «fu lui a costruirla nel 1310 – probabilmente su un edificio svevo – (…) interventi sulla struttura vi furono condotti per volere di Ferdinando II mentre Garibaldi la adibì a ospedale». La chiama «Villa Quisisana» e la classifica come «non visitabile». Eppure era parte del Grand Tour dei viaggiatori del primo Ottocento che, a cominciare da Goethe, avevano come meta quella Reggia, appena restaurata, dove si davano feste aperte ai forestieri nel parco dalle numerose fontane, cui si accedeva dalla grande terrazza. Non visitabile al tempo di aggiornamento, ormai lontano, della Guida Rossa, per lo stato di abbandono in cui l’ignavia degli uomini l’aveva ridotta (dal 2020, di nuovo restaurata, ospita il Museo Archeologico di Stabia Libero D’Orsi).
 
Miglior sorte riserva la Guida al monte Faito, dai panorami irripetibili in un ambiente di alta montagna boscosa: dal golfo di Napoli alla Costiera, al golfo di Salerno, con le isole sullo sfondo. Immutata rimane la strada panoramica che da Vico Equense, per strettoie e curve a gomito, tra i muri delle case, dove due auto non possono passare, porta, tra paesi fittamente abitati, alla “autostrada” (così la chiamano) che da Castellamare di Stabia porta al Belvedere. Unica alternativa alla funivia gloria e vanto degli stabiesi.
La Rossa non è testimone del parziale degrado che il Faito ha subito per l’insensata trascuratezza nella tutela delle sue faggete e per il mancato rispetto per il Santuario di S. Michele Arcangelo nella sua nuova sede di Cercasole (nome beneaugurante a Napoli) a 1200 metri di altitudine, tra ripetitori tv e antenne di ogni genere, venuti dopo e sempre più numerosi. Non che il santuario avesse mantenuto l’aura che l’aveva accompagnato nei secoli per guarire da ogni malattia o sventura, grazie alla sudorazione della manna dalla statua di San Michele e alla salubrità dell’aria, come testimonia il nome di Quisisana dato alla casina presto divenuta Reggia. Anzi, la continua caduta di fulmini aveva danneggiato la statua e la chiesa, sino alla decisione di costruirne una nuova dove ora si trova. Ottima scelta che ha preservato la vicina cima di Monte Sant’Angelo, ove prima si trovava, che la fantasia napoletana ha chiamato per la sua forma il Molare (come il Canino la vicina cima triangolare): masse calcaree emergenti sullo stesso colmo di monte. 
La chiusura degli alberghi e il parziale abbandono delle villette che ne dovevano garantire lo sviluppo turistico hanno ridotto il monte a luogo delle gite fuori porta della città metropolitana e degli inurbamenti della costa e della costiera. Così, nei giorni di festa e di bel tempo, si può assistere all’arrivo di famiglie che preparano i fuochi dei pranzi all’aperto, tra le faggete secolari, incuranti del pericolo degli incendi. Altri, in un distorto senso di libertà, piantano le tende in campeggi improvvisati, attorniando le fosse che un tempo i nevaioli riempivano di neve per l’estate. E così, al tramonto, in quei giorni, il monte appare nella suggestione della luce dei bivacchi  tra i faggi (di cui alcuni ultra quattrocentenari). Con il sussurro del vento, auspicabilmente leggero, si sente il loro sospiro: «Io speriamo che me la cavo...».
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