di Isabella Brega
Da Nicola I a Sergej Djagilev, da Igor Stravinski a Aleksandr Pušhkin, la città ha assistito al felice incontro fra due grandi culture e visto prosperare la colonia russa più esclusiva d’italia
Poco è cambiato. Oggi come ieri a Firenze parlare di russi richiama alla mente immagini di lusso e di un gusto sfarzoso. Un legame antico quello fra la culla del Rinascimento italiano e la terra dei Romanov. Prima della pandemia che ha scompigliato le carte, nel novembre 2018 la città dei Medici era una delle mete preferite dai turisti russi.
Con un significativo aumento del 47% delle ricerche online sul principale portale russo e un +40.2% di presenze rispetto al 2017, dopo la ripresa e la stabilizzazione del rublo avvenuta a fine 2016, i visitatori russi si erano infatti riaffacciati in Italia. Forti di una spesa media giornaliera fra gli 800 e i mille euro erano fra i top spender del Belpaese, posizionandosi secondo i dati UNWTO all’8° posto nella classifica dei turisti più prodighi al mondo. Calavano su Firenze soprattutto nel periodo estivo e in quello che va dal 25 dicembre al Natale ortodosso del 7 gennaio, alloggiavano principalmente in hotel a 4 o 5 stelle e si dedicavano alla ricerca del meglio e del più costoso, facendo shopping dei brand di lusso del Made in Italy. Veri nababbi, erano la gioia di commercianti e ristoratori. Proprio come nel 1439, quando i fiorentini erano rimasti stupefatti e abbagliati dal lusso e dall’opulenza del sontuoso ed esotico corteo degli ecclesiastici russi giunti per partecipare al Concilio di Firenze (che mirava alla ricomposizione dello scisma fra la Chiesa orientale e quella cattolica), con i loro luccicanti paramenti sacri e un seguito di 200 persone pronto a spendere e spandere. A loro erano seguiti ambascerie e nobili visitatori, ospitati a Palazzo Pitti e a Palazzo Vecchio, che con il loro esotismo «andando vestiti alla foggia del loro paese, cioè in modo mezzo barbaro e quasi strano, avevano sempre dietro di loro una moltitudine per osservarli di cui eglino però non si adontavano».
I commerci fra Russia e Toscana erano fiorenti, tanto che da Cosimo I fino a Gian Gastone, l’ultimo della dinastia Medici, pietre dure e tessuti di seta e oro partivano per la corte dello zar per essere scambiati con ermellini, zibellini e linci con i quali i signori di Firenze amavano farsi ritrarre. Da allora la città, grazie all’arte, al richiamo di Dante, ai molti cenacoli culturali e al clima mite eserciterà una forte attrattiva sull’immaginario russo, divenendo meta di viaggiatori diretti a Roma, intellettuali, artisti e dei cosiddetti “dačniki”, letteralmente i “villeggianti della dacia”, quelli che Maksim Gor’kij definiva “abitanti provvisori del proprio Paese”. Giungeranno qui da soli oppure
con un seguito di carrozze e cocchieri, servitori, suppellettili, libri, cuochi, precettori per curarsi dalla turbercolosi, per l’irrinunciabile Grand Tour, per lunghi e ricorrenti soggiorni che spesso si trasformeranno in domicilio permanente perché, come ebbe a scrivere Gogol’, «tutta l’Europa è da guardare, ma l’Italia è fatta per viverci».
I russi di Firenze si dedicheranno così al mecenatismo, acquisteranno o faranno costruire ville e palazzi, ridisegneranno la topografia cittadina, lasceranno tracce nelle insegne di negozi e hotel e collezioneranno opere d’arte. Ma soprattutto entreranno a far parte della vita cittadina, mischiandosi alle nobili famiglie locali, come i Pandolfini, i Pucci, i Rucellai e alla folta schiera di stranieri che nel XIX secolo costituiranno un quarto della popolazione (un altro quarto era rappresentato dai 25mila inglesi). Uomini e donne che porteranno il loro contributo alla storia della città, così come le quattro spendide sorelle Olsuf’ev, capitanate dalla scultrice e pittrice Assia, autrice di alcune opere che orneranno il transatlantico Raffaello, e da Maria, una tra le più valide traduttrici russe del dopoguerra.
I primi fiorentini russi sono nel 1818 i membri della famiglia del conte Dmitrij Petrovic Buturlin, bibliofilo ed erudito, di cui è ancora possibile ammirare lo stemma in via dei Servi, sulla facciata di Palazzo Montauti-Niccolini, dove raccoglie 30mila volumi. Seguiti nel 1819 da quella di Nikolaj Nikitič Demidoff, la più ricca della Russia dopo i Romanov, proprietari di miniere di malachite negli Urali, che si stabiliscono prima a Palazzo Serristori e poi a Palazzo Demidoff-Amici, mentre nel 1872 acquistano dai Savoia la tenuta di Pratolino. Ambasciatore dello zar Alessandro I presso la corte toscana, Nikolaj abbaglia con il suo lussuoso stile di vita, il suo colto mecenatismo, le sue sfarzose collezioni d’arte, ma è anche un generoso filantropo, aiuta ospedali e poveri. Suo figlio Anatolij, cui il Granduca Leopoldo II di Toscana conferisce il titolo di Principe di San Donato (dal nome della villa di famiglia presso Firenze), si muove nella stessa direzione. Ama la malachite, l’oro, le feste, le corse dei cavalli, i cibi e i vini più raffinati, alimenta lo spettacolo del lusso che forse meglio corrisponde all’immagine che i fiorentini hanno dei russi, ma acquista anche opere di Tiziano o Tintoretto e contribuisce alla ricostruzione della facciata della Cattedrale di S. Croce. Della stessa pasta il nipote di Anatolij, Pavel Demidoff, che apre scuole, mense e dormitori e nel 1877 dona 38mila lire (equivalenti a centinaia di migliaia di euro) per i restauri della facciata di S. Maria del Fiore, al tempo ricoperta solo di pietra grezza.
Un cospicuo numero di arredi della villa di San Donato in Polverosa dei Demidoff è oggi conservato nel Museo Stibbert, che espone il meglio del collezionismo ottocentesco fiorentino, grazie all’asta tenutasi nel 1880 nella quale Frederick Stibbert si aggiudica fra gli altri un grande tavolo in malachite e bronzi dorati e un caminetto in marmo bianco di Carrara rivestito di malachite e inserti in pietre dure, donato da Leopoldo II ad Anatolij Demidoff. A questa famiglia è intitolata la piazza affacciata sull’Arno che ospitava l’ospizio fondato dai Demidoff e in cui troneggia il monumento di Nicolaij, opera dello scultore Lorenzo Bartolini.
Grazie alla raffinata colonia russa Firenze può vantare la Chiesa della Natività, costruita nel 1899-1903 per volere della granduchessa Marija Nicolajevna, figlia dello zar Nicola I, frutto di una collaborazione fra le due culture: russi il progettista Michail Preobrazenskij e gli autori degli affreschi e delle icone, italiane le maestranze e l’architetto Giuseppe Boccini che seguì la realizzazione dell’opera. Qui, nel celebre Gabinetto Vieusseux, ove trovavano i giornali russi, nella sala da tè di Doney o nel negozio di merci russe di J. Welikanoff, in Lungarno 1191, era possibile incontrare molti degli intellettuali che soggiornarono a Firenze durante i loro viaggi in Europa o coloro che, dopo la rivoluzione, vi trovarono un approdo sicuro e un luogo di elezione. Un elenco lungo, che va dal musicista Il’ič Čajkovskij agli scrittori Lev Tolstoj, Fëdor Dostoevskij e Vasilij Rozanov, dai pittori Karl Brjullov e Ivan Ajvazovskij all’architetto Vasilij Stasov, dal poeta simbolista Aleksandr Blok allo storico dell’arte Pavel Muratov, che nel suo libro Immagini d’Italia (1912) ci ha regalato le più belle pagine russe dedicate a Firenze. E ancora George Balanchine, Marc Chagall, Wassily Kandinsky, l’anarchico Michail Bakunin come il dissidente Nobel per la Pace Andrej Sacharov e il poeta Nobel per la letteratura Iosif Brodskij, autore della poesia Dicembre a Firenze (1976). Alcuni di loro sono rimasti fedeli alla città anche nella morte e riposano nel Cimitero evangelico Agli Allori, un vero giardino della memoria. Qui si trova la tomba di Olga Bazilevskaja, alla cui scomparsa il figlio donò al Comune la villa davanti ai giardini della Fortezza da Basso per farvi un ospedale intitolato alla madre: dalla morte rinasceva la vita. Non a caso, come sosteneva infatti il regista Andrej Tarkovskij che ci visse dal 1983 a 1986, «Firenze è la città che restituisce la speranza».