Villa Bardini a Firenze

Dal suo giardino si gode del più bel panorama sulla città. Eppure Villa Bardini è ancora poco nota, nonostante una storia singolare, che inizia con un testamento ancora più singolare...
 
La cupola di Brunelleschi, il campanile di Giotto, la Torre di Palazzo Vecchio, S. Croce e la corona verde delle colline tutt’intorno. Non manca nulla della “Firenze che conta” alla veduta da cartolina che ammiro dal giardino di Villa Bardini. Eppure pochi la conoscono, nonostante si trovi a poca distanza dal Ponte delle Grazie. Forse perché questa tenuta da fiaba è stata dimenticata a lungo, bloccata alla morte del suo proprietario, Ugo Bardini, come da un incantesimo innescato dalle sue ultime volontà. Prima di morire nel 1965, infatti, l’unico erede maschio di Stefano Bardini – il leggendario principe degli antiquari di fine Ottocento – stabilì che tutte le proprietà lasciategli dal padre adottivo fossero messe all’asta, allo scopo di comprare «un’unica opera che rappresentasse il suo spirito» da donare ai musei fiorentini. Questa clausola del suo testamento però si risolse soltanto nel 1996, grazie a una complessa operazione che portò lo Stato italiano a concludere il suo più importante acquisto di opere d’arte nel dopoguerra e a diventare contemporaneamente proprietario del parco e della villa. Come andò davvero me lo ha raccontato Vittorio Sgarbi, che allora in veste di presidente della Commissione Cultura fu fra i protagonisti della vicenda…

«L’intera eredità Bardini fu valutata 34 miliardi di lire. Il Ministro dei Beni Culturali Antonio Paolucci stanziò quindi metà della cifra per comprare un dittico di Antonello da Messina destinato agli Uffizi e l’altra metà per acquisire Palazzo Martelli, con l’intera collezione (oggi museo statale, nda) e il celebre stemma di Donatello da allora esposto al Bargello». E non finì lì, perché nel 2015 ancora Sgarbi si adoperò per riunire quello che in realtà era un trittico di Antonello, suggerendo agli Uffizi lo scambio della terza pala, raffigurante San Benedetto e di proprietà della Regione Lombardia, con La Madonna con il Bambino di Vincenzo Foppa, oggi esposta al Castello Sforzesco di Milano. 

Esaudite le ultime volontà di Ugo Bardini, dopo trent’anni di attesa anche per la sua villa poteva cominciare una nuova vita. A causa del lungo abbandono, però, i suoi quattro ettari di parco erano ormai boscaglia incolta, con la scalinata barocca in rovina e il dragone di pietra del primo giardino anglo-cinese d’Italia sepolto dai detriti. Finanziati dalla Fondazione Cassa Risparmio di Firenze – che da allora gestisce la proprietà attraverso la Fondazione Parchi Monumentali Bardini Peyron (Villa Peyron si trova a Fiesole, bardinipeyron.it) – i restauri durarono ben cinque anni e furono affidati all’architetto Maria Chiara Pozzana, che decise di seguire i sette secoli di storia del giardino, senza privilegiare un’epoca rispetto a un’altra.

Oggi una combinazione eclettica di natura e arte, specchio dei gusti e delle esigenze dei suoi vari proprietari, accoglie il visitatore. Dall’ingresso di via dei Bardi, salendo fino alla porta in costa S. Giorgio, la sorpresa è a ogni angolo e non soltanto per il panorama. Lungo l’itinerario oltre a statue, colonne e fontane, si incontrano il possente palazzo dei Mozzi a sud e l’elegante villa Manadori sulla cima della collina, il giardino anglo-cinese dei Le Blanc e il gran colpo di scena della scalinata voluta da Giulio Mozzi. E poi la moderna via carozzabile realizzata nel 1913 da Stefano Bardini insieme con il colonnato della panoramica Kaffehaus, dove è d’obbligo fermarsi almeno per un caffè. Anche se purtroppo è aperta soltanto nella bella stagione. 

Il giardino è un’opera collettiva e ancora oggi rivela di essere stato diviso fino al 1839 in due parti: quella a oriente appartenuta alla famiglia Mozzi e quella a occidente che dal XVII secolo fu prima dei Manadori e poi dell’industriale francese Jacques-Louis Le Blanc. Addentrandomi nei vialetti con una guida d’eccezione, l’architetto Giorgio Galletti – già direttore del Giardino di Boboli e oggi consulente della Fondazione CR per Giardino Bardini – scopro che anche l’architetto Pozzana ha lasciato la propria impronta. A lei si devono, infatti, il teatro verde, il frutteto, le siepi e soprattutto il tunnel del glicine, divenuto oggi l’immagine più famosa del giardino.

Mi viene naturale chiedere a Galletti se anche lui intenda scrivere un nuovo capitolo nella lunga storia di questa originale e magnifica proprietà. «No, il mio intento oggi è conservare e semmai armonizzare quel che c’è. La salute delle specie botaniche e la conservazione dei manufatti d’arte sono la mia priorità. E poi vorrei mettere in sicurezza la scalinata barocca, per regalare ai visitatori la veduta di Firenze da un’altra prospettiva unica». Certo il lavoro non gli mancherà, perché i giardini monumentali sono un’opera d’arte vivente che necessita di costanti cure. 

Nel frattempo Villa Bardini è tornata al centro della vita culturale, ospitando convegni, eventi di costume (come la sfilata di Dolce & Gabbana dell’anno scorso), cinema all’aperto e grandi mostre. Attualmente è in corso fino al 25 aprile Galileo Chini e il Simbolismo Europeo, dedicata al pittore, illustratore e ceramista fiorentino che fu protagonista del liberty italiano. Esposte circa 200 opere, dagli esordi alla prima guerra mondiale, quando Chini muoveva i primi passi della sua attività e il grande antiquario Stefano Bardini concludeva la sua, trasformando in un museo il suo leggendario showroom in piazza dei Mozzi, proprio dietro l’angolo. Una visita da non mancare, ma questa è un’altra storia della “saga Bardini” che meriterebbe di essere raccontata nei particolari.

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