Una foto, una storia. L'occhio lungo dell'esploratore

Giuseppe TucciGiuseppe TucciGiuseppe Tucci

I viaggi in Tibet di Giuseppe Tucci, il più grande studioso di Tibet del Novecento, e il suo racconto su Le Vie del mondo negli anni Trenta

Giuseppe Tucci e il Touring Club Italiano hanno diverse cose in comune. Sono nati entrambi lo stesso anno, nel 1894; ed entrambi sono sempre stati affamati di conoscenza, avidi di scoprire il pianeta, ma generosi nel produrre conoscenza e nel raccontare il mondo agli altri. È normale dunque che le traiettorie di un’associazione che nel suo primo Statuto esplicitava di “avere per iscopo lo sviluppo del turismo in genere” e un esploratore, archeologo e intellettuale poliedrico, considerato il più illustre studioso di cose tibetane – arte, religione, società – di tutto il Novecento, a un certo punto incrociassero le loro traiettorie. Accadde nel 1935. Dopo il suo quinto viaggio in Tibet – allora forse il regno più remoto e sconosciuto che esistesse sulla faccia della terra – Giuseppe Tucci scrive due lunghi reportage per Le vie d’Italia e del mondo. Sono due storie di copertina, lunghe 26 pagine l’una e illustrate con immagini scattate dallo stesso Tucci ora riprodotte in queste pagine. All’epoca Tucci era già un’autorità nel campo dell’esplorazione e delle scoperte: nel 1934 aveva fondato con Giovanni Gentile l’Ismeo, l’Istituto per il Medio ed Estremo Oriente. Prima era stato in Nepal, in Iran, varie volte in Tibet, aveva insegnato cultura cinese all’università di Calcutta. Eccezionale per fisico, intelligenza e cultura (parlava, oltre alle principali lingue europee, anche cinese, tibetano, hindi e sanscrito, che iniziò a studiare da solo, a quindici anni) era un po’ la risposta italiana al tedesco Alexander Von Humboldt. Si è detto di lui che fosse vicino al fascismo, qualcuno la chiamava l’esploratore del Duce, firmò senza remore il Manifesto della razza, il che fa riflettere forse sulla sua coerenza, o sul suo opportunismo dettato dai tempi. Perché Tucci era uno cui non interessava conquistare, ma capire civiltà e culture altre. Uno che credeva fortemente “nell’intima unità del genere umano”. Uomo di pensiero e azione, famoso per essere l’archeologo dei 50 chilometri, quanti ne percorreva ogni giorni sui sentieri accidentati del tetto del mondo.

E il Tibet è sempre stata la sua passione. Nel primo dei due reportage scritti per il Tci, Nel Paese dei Lama del marzo 1935, rivela che «di tutte le provìnce del Tibet quella occidentale è quella che più mi ha interessato. Per varie ragioni, ma soprattutto perché fu il tramite della diffusione del Buddhismo dall’India nel Paese delle nevi, come i Tibetani chiamano poeticamente il loro Paese». Lo racconta in modo intenso, diretto. «Paese povero, questo Tibet occidentale: non vi cresce né l’erba, né l’albero. L’ultimo albero, l’albicocco, scompare anch’esso verso i 3.500 metri…». E ancora: «Si mangia la farina impastata con l’acqua in certe ciotole di legno e d’argento che il tibetano porta sempre con sé, e così si campa la vita. Ma parecchie tazze di tè completano la dieta di questi montanari frugali. Per vero dire il loro tè non è come il nostro: è un certa mistura di tè bollito, di sale, di burro di yak e di soda: una brodaglia non molto piacevole al nostro palato, almeno finché non mi ci sono abituato e che in omaggio al mio amore per il Tibet, io ho dovuto più volte tracannare». Un Paese oggi scomparso, che allora era davvero simile a uno scrigno smarrito. Scritti sinceri, quelli pensati per i soci del Touring, in cui racconta del suo viaggio nella regione del 1933, il quinto degli otto che farà prima che la Cina comunista invada la regione. Spiega la sua missione: «Lo scopo principale dei miei viaggi è stato soprattutto rievocare la sua storia politica, religiosa e artistica». E per farlo occorre «visitare le rovine e i templi, fotografarne le pitture, decifrarne le iscrizioni, intendere il simbolismo religioso degli affreschi». E si spinge a raccontare con onestà il suo modo di operare. «Bibite e liquori piacciono molto a questa gente, e non nego che molti dei libri che ho riportato dalle mie spedizioni non mi sono costati più di una bottiglia di birra data di nascosto a qualche monaco ubriacone».

Fosco Maraini, che prese parte alla spedizione tibetana successiva, del gennaio del 1937, offrendosi come compagno di viaggio con pratica di fotografia, spiegò che da Tucci apprese il senso del rigore nella ricerca e «la necessità scientifica di uscire da una visione etnocentrica delle cose». Un relativismo ben ponderato che fu sempre una delle caratteristiche del Tucci scienziato. Un atteggiamento che caratterizzò tutta la sua opera, costruita nel corso di una esistenza lunga, profonda e intensa. Quella di un uomo con un’irrequietezza mai sazia, che amava la vita nomade ed era in preda a una sorta di estasi da spedizione. Una vita che nel 1984, a 90 anni, «si dissolse nella suprema luce».

Foto Archivio fotografico Tci
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