di Tino Mantarro
La Cop26 di Glasgow è stata un successo o un fallimento? Ne hanno discusso i consiglieri Mario Tozzi e Marco Frey. Non tutto è perduto, ma serve un cambiamento culturale. A partire da noi
Quel che resta della Cop26 di Glasgow è un senso di amarezza. Un “vorrei ma non posso” di qualche Paese. Un “neanche vorrei” di tanti altri. Come se i problemi climatici non fossero impellenti e non li riguardassero davvero. L’idea generalizzata tra gli attivisti e gli osservatori è che la conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici in cui si sarebbero dovute prendere misure drastiche per contenere, non solo a parole, l’innalzamento delle temperature della terra «sia stato un sostanziale fallimento», per dirla alla Greta Thunberg. Se lo scopo dichiarato era che ogni Paese presentasse obiettivi ambiziosi per arrivare alla riduzione delle emissioni dei gas serra entro il 2030, in modo da raggiungere un sistema a zero emissioni nette entro metà del secolo, allora non è stato raggiunto. Non è stato neanche accelerato il processo di fuoriuscita dal carbone, obiettivo considerato vitale per puntare al contenimento dell’aumento delle temperature sotto i due gradi. Che non sia andata un granché bene è un parere condiviso, con diverse sfumature, pure da Marco Frey, consigliere Tci che ha seguito di persona l’intera Cop26 in qualità di presidente della Fondazione Global Compact Italia. Per spiegare meglio ai soci come è andata la Cop26, il Touring Club Italiano ha organizzato un dibattito coinvolgendo i due consiglieri più specializzati in questi temi, lo stesso Frey e Mario Tozzi, geologo e divulgatore scientifico, da sempre osservatore critico e attento di quel che riguarda la salute del pianeta.
«Viste le alte aspettative, questo incontro avrebbe dovuto portare a importanti passi avanti, necessari per arrivare ai risultati previsti dalla Conferenza di Parigi del 2015 in termine di riduzione delle emissioni e contenimento del riscaldamento globale» spiega Frey. «Invece su troppi fronti, dall’impegno delle singole nazioni nella riduzione delle emissioni alla questione carbone, fino all’istituzione di un fondo di compensazione a favore dei Paesi in via di sviluppo, si è preferito allontanare ancora l’orizzonte dell’azione concreta, rinviandola al prossimo appuntamento, previsto in Egitto nel 2022». Così si è arrivati a firmare un accordo al ribasso che Tozzi non esista a bollare come truffaldino. «Diciamolo chiaramente: hanno speso una settimana a dire quanto è grave la situazione, e un’altra a rimandare tutto quel che avrebbero potuto fare al 2030. Che gioco è? Se prendi coscienza della situazione tragica non perdere altro tempo, perché tempo non c’è. La situazione cambia solo se i Paesi ricchi, che hanno causato tutto questo disastro nel loro percorso di sviluppo, capiscono che devono abbandonare il loro stile di vita, e nel farlo compensano gli altri Paesi che giustamente aspirano a migliorare le loro condizioni, redistribuendo la ricchezza. Ma non solo i Paesi ricchi non vogliono farlo per questioni economiche, non vogliono proprio cambiare il loro stile di vita. Paesi come il Qatar o gli Stati Uniti producono tra le 20 e le 30 tonnellate di anidride carbonica pro capite all’anno: un’enormità. Se tutto questo non cambia, non ci sono speranze. Ma alla Cop26 nessuno ha parlato di fermare gli affari dei petro-carbonieri che, anzi, elaborano piani futuri di crescita». Secondo Frey, bisogna sforzarsi di vedere il bicchiere mezzo pieno. «Non era affatto scontato che venisse sancito un grado e mezzo come obiettivo di contenimento della temperatura. L’impegno preso a Parigi era di stare genericamente sotto i due gradi e questa è la parte più bassa della forchetta. E poi sono stati fatti importanti passi avanti sulla riduzione della deforestazione, un impegno preso anche dalla Cina; oltre che sul riconoscimento dei danni ai Paesi più colpiti dai cambiamenti climatici».
Però a chi li guarda da lontano viene il dubbio che incontri come quello di Glasgow – che spesso si trasformano in un evento di pubbliche relazioni e dichiarazioni generiche – non siano la sede più adatta per risolvere certe questioni. «Occasioni come questa, per quanto difficili e dai risultati deboli, sono faticose ma necessarie», continua Frey. «Il multilateralismo è ancora l’unico modo di agire su scala globale, altrimenti si procede con logiche particolari e frammentate che non portano a risultati. Quando tutti hanno voluto mettersi in gioco davvero per il pianeta i risultati sono arrivati. È successo con la conferenza di Montreal (nel 1987, ndr), dove si è firmato il protocollo che ha portato all’eliminazione dei Cfc, primi responsabili del buco dell’ozono» ricorda Frey. «Il metodo adottato allora fu semplice e circostanziato: un problema specifico e soluzioni forti, che hanno obbligato prima i Paesi ricchi, principali responsabili delle emissioni, e poi quelli in via di sviluppo, la cui transizione è stata sostenuta economicamente. Anche per l’eliminazione del carbone la strada dovrebbe essere quella» prosegue il consigliere. Strada che però non convince Tozzi. «Se non c’è un accordo internazionale coatto che obbliga i Paesi a intervenire e un organismo terzo che controlla l’effettiva attuazione dei protocolli non si arriva a nessun risultato. E questa è l’unica via: sono 30 anni che ripetiamo che è tardi, ma poi non agiamo» ribadisce.
«Ma se i vari Paesi e i loro governi – pur essendo tutti concordi sul fatto che abbiamo un problema ineludibile – non intervengono concretamente, allora chi può farlo?», si interroga Massimiliano Vavassori, direttore del Centro Studi Tci. «Il terzo settore in questa partita è importante, tutti i movimenti dal basso sono importanti perché fanno pressione sui politici nel prendere le loro decisioni» riprende Frey. «E sono importanti anche gli attori economici, con le loro scelte ambientali possono dare un segnale di cambiamento. E ognuno di noi, con le sue scelte di acquisto e consumo, può avere un ruolo positivo. Sono gocce nell’oceano, certo, ma sono elementi importanti, che presi nel loro complesso diventano un movimento che va verso una direzione chiara». Ma c’è un rischio concreto. Prima che tutti capiscano e si mettano in marcia verso la direzione auspicata potrebbe essere davvero troppo tardi. «Se da questo momento riuscissimo per magia ad annullare ogni tipo di emissione, prima di vedere dei risultati concreti ci vorrebbe comunque mezzo secolo perché l’atmosfera ha una sua inerzia. I comportamenti dei singoli possono essere importanti, ma conta più che i governi siano obbligati ad agire per arrivare ai risultati. E non c’è tempo da perdere» sottolinea Tozzi. Anche se è difficile imporre qualcosa a Paesi che fanno il gioco delle tre carte, a parole dicono di essere preoccupati, ma in concreto non agiscono. «Al mondo si distribuiscono 6mila miliardi di dollari di sussidi alle industrie estrattive di petrolio e carbone. Se non si blocca tutto questo, se da domani non si fermano le estrazioni non ce la possiamo fare. Qualcuno obietta: sarà un bagno di sangue per i consumatori. Io dico: se si tolgono i finanziamenti sarà un problema per i petrolieri. Ogni giorno al mondo vengono pompati 95 milioni di barili di petrolio, ci sono nazioni che reggono la loro economia su quello, dunque figurati se rinunciano di loro sponte». E per fare tutto questo serve comunque tempo, sottolinea realisticamente Frey. «Si devono strutturare alternative, altrimenti ci sarà un tracollo economico: tutto si deve pianificare e serve tempo». Fatto è che l’urgenza rimane. «Nella questione ambientale la partita non finisce mai: l’uomo è chiamato a rimediare ai danni che ha causato. E non può tirarsi indietro. Come fare? Appropriandoci della massima di Sant’Agostino alternando l’indignazione al coraggio», auspica.
E qui si torna al ruolo del terzo settore e di associazioni come il Touring Club Italiano. «Tutti noi possiamo fare moltissimo, c’è davvero bisogno dell’azione di tutti. Il modo in cui si consuma, quello in cui ci si muove, le modalità di fruizione dei territori, di gestione delle città, di sviluppo delle aree interne. Il cambiamento dipende da tutte queste cose, che impattano sul consumo delle risorse complessive, dall’acqua fino alle fonti energetiche» spiega Frey.
«Una volta si diceva “siamo realisti, chiediamo l’impossibile”. E a quello dobbiamo puntare, non possiamo abbassare asticella, la situazione non ce lo permette» aggiunge Tozzi. Ma in concreto, cosa si può fare? «Ci vuole l’ottimismo della volontà. Associazioni come la nostra devono fare tutto il possibile per creare mobilitazione e accrescere la consapevolezza su queste tematiche, anche se oggi inizia a essere più diffusa» sottolinea Frey. «Creata la coscienza, bisogna far maturare l’idea che agire si può, che si possono cercare soluzioni coerenti per raggiungere l’obiettivo. Per esempio il Tci può dire la sua, come ha fatto in passato, sulla protezione dei boschi e delle foreste. E in secondo luogo può continuare nella strada intrapresa di appoggio allo sviluppo della mobilità dolce. E soprattutto deve fare sistema con tutti gli altri attori del terzo settore, proponendo soluzioni concrete, per esempio premendo perché vengano eliminati tutti i sussidi alle industrie del carbone e spente le centrali residue. Ma credo sia anche necessario, assieme alle altre associazioni ambientaliste proporsi come “cani da guardia” di questo processo, controllando per esempio che le risorse del Pnnr vengano spese per perseguire questi scopi, facendo pressione sul governo perché facciano quel che noi e le altre associazioni chiediamo» sottolinea Frey.
«Ognuno deve partire dal settore che gli è più vicino, nel nostro caso quello del turismo» ammette Tozzi. «Però nel campo dell’accoglienza non vedo una riconversione dei nostri operatori. Tutti si ammantano di parole come green e sostenibilità, che nei fatti rimangono parole. Invece bisogna cambiare la filiera dell’accoglienza, invertendo la tendenza ad andare tutti in vacanza ad agosto, facilitando l’utilizzo dei mezzi pubblici, lasciando a casa la macchina perché le emissioni che ognuno produce derivano per il 49% dalla mobilità. Bisogna indurre cambiamenti virtuosi, ma insisto: lo si deve fare in fretta; se non lo facciamo finiremo con subire gli stessi cambiamenti in modo ben più traumatico» conclude. «In tutto questo – conclude Vavassori – il Tci potrebbe ritagliarsi un ruolo per diffondere una reale cultura della sostenibilità ambientale, sia agendo sul lato dell’offerta, le imprese, sia su quello della domanda, i cittadini. In modo da rendere i turisti più consapevoli nella loro pratica di viaggio, ma anche nella loro vita quotidiana». E magari alla Cop27 i risultati saranno un poco meno amari.