di Gabriele Miccichè | Margherita Bianca
Nel cuore della Valle dei Templi, la riscoperta e la cura del Giardino della Kolymbetra raccontano di un passato mitologico, ma già attento alla tutela della biodiversità
Gli schiavi cartaginesi catturati dopo la battaglia di Himera del 480 a.C., la leggenda vuole nello stesso giorno della battaglia di Salamina, “abbellirono la città e il territorio […] costruirono anche una sontuosa piscina [chiamata κολυµβήθα: piscina, bagno, cisterna, peschiera]: in essa vennero condotte le acque dei fiumi e delle sorgenti, diventando così un vivaio, che forniva molti pesci per l’alimentazione e per il gusto; e poiché molti cigni volavano giù verso di essa, la sua vista era una delizia. Ma in seguito trascurata, venne ostruita, e infine, distrutta […] E gli abitanti trasformarono tutta la regione, che era fertile, in terreno piantato a viti, e denso di alberi di ogni tipo, così da ricavarne grandi rendite”. È la descrizione che fa Diodoro Siculo nell’XI libro della sua Biblioteca Storica ed è la prima testimonianza di quell’area che da alcuni anni è conosciuta come Giardino della Kolymbetra. Un piccolo paradiso a ridosso della Valle dei Templi di Agrigento. Agrigento – Akragas, da ákros, elevato – fondata da esuli greci del Dodecaneso fu una delle città più potenti di tutto il mondo ellenico. Accanto all’acropoli, in un’altura declinante verso il mare, costruirono una successione di templi che nessuna città greca poté mai vantare. Certo l’acropoli di Atene ha di suo l’inarrivabile Partenone, ma la valle agrigentina rimane per dimensione, qualità degli edifici e loro stato di conservazione, uno degli episodi più impressionanti della civiltà greca. La piscina quindi già ai tempi di Diodoro (I secolo a.C.) era stata trasformata in orto e area di coltivazione di alberi da frutto. Nel Medioevo era divenuta proprietà della chiesa col nome di Badia Bassa.
Nel 1931 Pirandello nel romanzo I vecchi e i giovani così descrive il luogo: “Nel punto più basso del pianoro, dove tre vallette si uniscono e le rocce si dividono e la linea dell’aspro ciglione, su cui sorgono i templi […]”. E riprende: “Restava di qua, scendeva con gli ultimi olivi in quel burrone, gola d’ombra cerulea, nel cui fondo sornuotano i gelsi, i carrubi, gli aranci, i limoni lieti di un rivo d’acqua[…]”.
Nell’ultimo quarto del secolo scorso però l’area viene abbandonata. Della sua riscoperta e della restituzione alla fruizione pubblica parliamo con Giuseppe Barbera professore di Coltivazioni arboree all’Università di Palermo, uno dei protagonisti di questo recupero e autore del libro Il giardino del Mediterraneo (Ed. Il Saggiatore). «Era il 1999 quando Peppe Lo Pilato mi portò a dare uno sguardo a un vallone tra il tempio dei Dioscuri e quello di Vulcano soffocato dai rovi, sporcato da discariche e da un maleodorante rivolo alimentato da fogne abusive. I sentieri erano impercorribili, a stento emergeva dal disordine la chioma sofferente di aranci e limoni». Com’è andata? «L’intervento non poteva essere il risultato di un progetto totalmente nuovo: un paesaggio agrario tradizionale non si progetta, ma si recupera leggendo le tracce che la storia ha lasciato, le lezioni che ci giungono dagli equilibri ecologici che lo hanno dettato, nei segni residui dei manufatti e delle vecchie culture e nella memoria dei coltivatori. Quella dei vecchi coltivatori aiutò a ricostruirne la trama e una squadra di potatori che conoscevano le antiche tecniche e che arrivarono dalla Conca d’Oro palermitana, con attenzione e cura sconosciuta, ci aiutarono a ridare vita e forma ai vecchi alberi». L’impressione è quella di passeggiare in un agrumeto ma la varietà del giardino è più complessa. «Il gruppo più rappresentato è quello degli agrumi con 660 esemplari di arancio dolce, 47 di arancio amaro, 62 di limone, 34 di mandarino, 25 di clementine…». Ma c’è altro. «Prevalgono l’olivo e il mandorlo. Poi abbiamo esemplari di lazzeruolo, banano, carrubo, cotogno, fico, ficodindia, gelso bianco, gelso nero, kaki, melo, melograno, nespolo del Giappone, nespolo d’inverno, pero, pesco, pistacchio, sorbo». Un giardino delle Esperidi? «Ogni specie è rappresentata da antiche varietà, in gran parte non più in coltura negli orti moderni. Alcune di queste, soprattutto i vecchi olivi, hanno un grande valore paesaggistico e rimandano per età e dimensione agli olivi saraceni di cui scriveva Pirandello. Interessanti poi dal punto di vista naturalistico e paesaggistico, sono alcuni esemplari della macchia mediterranea tra cui il canneto che forniva gli strumenti per la raccolta di mandorle e olive».
Sembra che dietro questo progetto ci sia un nuovo approccio. «I paesaggi dell’agricoltura contemporanea sono spesso il risultato di una visione riduzionista basata sull’applicazione di tecniche singole e settoriali. Ma quelli tradizionali sono luoghi complessi, l’incontro tra natura, storia e percezione umana. Non possono essere valutati esclusivamente per il valore di eredità, di bene culturale da salvaguardare, né di riserva di biodiversità. Non sono il passato, sono il futuro: forme, insiemi che rappresentano le esigenze di sistemi sociali e culturali in evoluzione». In questo quadro, nel 1997 sempre con Peppe Lo Pilato, Barbera aveva creato – e sempre a ridosso della Valle – il Museo Vivente del Mandorlo che con la crisi sopraggiunta per le importazioni rischiava di perdere la sua ricchezza di specie. «Dai testi scientifici conoscevamo oltre 600 specie. Nei nostri sopralluoghi ne arrivammo a riconoscere 250». Riecheggia una nota affermazione di Mario Praz. In Sicilia “il massimo piacere del viaggiatore si raggiunge quando allo spostamento nello spazio si unisce lo spostamento nel tempo […]. Il retroscena storico è profondo, e la varietà del paesaggio supplice alla ristrettezza spaziale. Si potrebbe facilmente sostenere che quello in Sicilia è il viaggio perfetto”. Il tempo e lo spazio sono i due aspetti della stessa medaglia? «La conoscenza è scoperta, ricerca, speranza e sogno per il futuro. Le scienze ci ricordano che siamo parte di un sistema interrelato di viventi. Ora occorre recuperare una cura che sembra si sia smarrita. Lo insegna il Mediterraneo: la natura e la cultura privilegiano la diversità, l’incontro altruista e non l’esclusione egoista».