di Tino Mantarro | Fotografie di Alessandro Grassani
Codera è l’unico borgo abitato delle Alpi non raggiunto da una strada o da una funivia. I suoi sei abitanti sono vivaci avanguardie di un nuovo modo di vivere, o residui di un antico passato in via di estinzione? Dopo 2600 gradini abbiamo scoperto che...
Non è una valle per distratti, la Val Codera. La domanda che ci si deve fare prima di salire è una sola: avrò dimenticato qualcosa? Perché se si lascia qualcosa giù potrebbe essere un problema recuperarlo: al borgo di Codera, che con la sua manciata di case di pietra grigia se ne sta acquattato in questa stretta vallata a imbuto, ci si arriva solo a piedi. Alternative non ce ne sono.
Bisogna aver fiato e pazienza, e iniziare a contare uno a uno i gradini irregolari incisi nel granito. Contare per non pensare alla salita, ai 620 metri di dislivello da Novate Mezzola, al sudore che appanna gli occhiali nelle due ore in cui ci si affanna lungo una mulattiera larga, ben tenuta e in sicurezza. Un percorso in parte scavato nella roccia come fosse un monumento alla tenacia, in parte affogato nel folto dei castagni. Contare e, quando prendi una provvidenziale boccata d’ossigeno, ammirare il paesaggio sottostante, il lago di Novate e più in fondo il lago di Como. E così strada salendo finisce che si perde il conto degli scalini, che potrebbero essere 2.600, forse meno, forse più. Comunque tanti, ma necessari se si vuole arrivare nell’unico borgo di tutte le Alpi abitato per 365 giorni l’anno non raggiunto da una carrozzabile. Non che sulle Alpi italiane non ci siano altri luoghi senza strada, però magari hanno una funivia, come Chamois in Valle d’Aosta, o come Monteviasco, in provincia di Varese, la cui vita quotidiana è appesa al filo di una teleferica. Mentre a Codera, che sta in una laterale della Valchiavenna, al confine con la Svizzera, l’unica alternativa alla scarpinata è l’elicottero: 90 secondi di ascensione verticale per arrivare al campo d’atterraggio in erba all’ingresso del borgo. Servizio su prenotazione nei finesettimana, ma solo se c’è bel tempo; prezzo 35 euro a tratta. Lo si usa per portare su i viveri e il materiale necessario alla vita quotidiana delle sei, sette persone che qui, a 850 metri d’altitudine, vivono tutto l’anno. Sono l’Alfonsina, 93 anni, e il figlio Camillo; il Celeste che è tornato a viverci da pensionato; la Elena e l’Andrea, gestiscono rispettivamente l’Osteria Alpina e la Locanda, e poi il Devis, che alleva capre, spesso assieme ai genitori che gli danno una mano, e lo vedi di rado. Persone eterogenee gli abitanti di Codera, non riesci bene a valutare se sono i semi di qualcosa di nuovo, una nuova idea di vivere e abitare le terre alte, o i rimasugli di insediamenti antichi, di una civiltà rurale alpina abbarbicata a ogni centimetro di terra utile, destinata a scomparire. Pionieri o retroguardia: per provare a capirlo ci devi andare, parlare con la gente che trovi e metterti in osservazione in una delle due locande.
Per esempio l’Osteria Alpina che sta in una casetta grigia su due piani in centro paese, con un bello spiazzo ombroso davanti che diventa veranda per gli avventori e balcone sulla valle, ma anche orecchio sulla comunità. Il paesaggio intorno è verticale, ripido e impervio: di piano non se ne vede. Di fronte boschi di betulle e frassini salgono verso il cielo, ritti come le scure pareti di granito che fanno da corona sulle cui creste spuntano altri alberi solitari. Pini, larici che stanno come sentinelle di una guerra che per fortuna qui non si è mai combattuta. Dentro l’ambiente è quanto di più simile ci sia all’idea di accogliente osteria di montagna: uno stanzone con pavimento di mattonelle chiare e grandi tavoli cui gli avventori si accomodano senza distinzione. Alla destra dell’ingresso ce ne è uno che sembra essere riservato ai nativi, è il più vicino al camino perennemente acceso che fa focolare nel senso antico del termine, ovvero un luogo intorno a cui ci si raccoglie per scaldarsi, chiacchierare e stare insieme. Al di là di quel che si è solito pensare sulla chiusura delle genti di montagna, almeno nel finesettimana stare insieme sembra l’attività preferita da tutti quelli affezionati di questo posto, perché a Codera trovi sia gente con le radici qui, sia del resto d’Italia.
ma, se così sì può dire, del molto che accade nel borgo è l’Associazione Amici della Val Codera. Nata nel 1981, da allora ha fatto di tutto per mantenerlo in vita e dargli una prospettiva futura. Ne fanno parte qualche centinaio di persone: hanno iniziato con un piccolo museo etnografico che raccoglieva i vecchi oggetti stipati in soffitta, poi un museo mineralogico e una ininterrotta serie di feste, concerti, incontri e attività di ogni genere. «Qui negli anni Trenta vivevano 500 persone e negli anni Cinquanta 200, tanto che fino al 1969 c’era anche una scuola. Il paese è sopravvissuto allo spopolamento perché c’erano le cave, non si viveva di sola agricoltura alpina o contrabbando» spiega il presidente, Roberto Giardini. Anatomopatologo, milanese, Giardini ha adottato Codera negli anni Settanta venendo a fare una passeggiata in primavera «non avevo idea di che posto fosse, ma ricordo ancora il numero del posto telefonico pubblico cui avevo chiamato per cercare alloggio, 0343.44145», racconta. Da allora si spende per portare avanti progetti e idee innovative, le uniche che possono tenere in vita la comunità. Anche se prima di qualsiasi discorso sul domani viene normale investigare il passato, capire come mai questa sia l’unica vallata italiana senza strada. «C’è una questione di sostanza, ovvero realizzarla è sempre stato troppo costoso vista la topografia del territorio con la vallata stretta, la roccia dura e la sua scarsa densità abitativa. E una questione di contingenza: negli anni passati c’è stata anche una certa rivalità con gli abitanti di Novate, che come dice il nome è un Comune nuovo, con legami storici relativi con Codera che è sempre stata autonoma, e non ha mai spinto affinché si facesse». Certo, negli anni Trenta poco oltre il paese hanno realizzato una presa d’acqua a scopo idroelettrico e sarebbe stata la volta buona. Ma hanno realizzato solo una via di servizio, il Trecciolino, scenografico sentiero aggrappato al fianco della montagna che rimanendo in quota, arriva in valle dei Ratti. «Però è stretto, ci passava il trenino dei minatori e adesso è frequentato dalle biciclette – spiega –. Anni fa si voleva fare una telecabina, c’erano anche dei soldi, ma poi non si è concretizzato».
E forse oggi stanno bene così, nel loro insolito isolamento. Anche se certuni preferirebbero non essere più remoti, vorrebbero avere una strada come tutti. Come è prevedibile c’è un po’ un contrasto tra chi l’è dei noss e chi l’è minga dei noss; chi qui ha le sue radici e chi viene da fuori. Così nell’abitato di Bresciadega – si raggiunge addentrandosi per un’altra ora nella vallata –, i proprietari di seconde case hanno deciso di costruire una strada in terra battuta fino a Codera. Serve per arrivare più vicini alla postazione dell’antiquata teleferica per il solo trasporto delle cose che arriva in fondo al paese. «Si attiva una volta a settimana, ma non è funzionale, troppo complessa» spiegano. La strada segue il corso del torrente Codera ed è percorsa da quad e moto da cross, ma quando la percorri sembra fuori contesto. E poi – anche se affermarloo è oggettivamente puro egoismo da cittadino –, uno che è arrivato fin qua a piedi quasi si infastidisce nel sentire il baccano dei motori che rompono il silenzio. Perché è proprio per via del suo isolamento dalla modernità a motore che Codera ha trovato una sua specificità umana.
«Il sentiero fa selezione, viene chi apprezza una certa asperità» dice Elena Gusmeroli, una degli abitanti stabili. Viene da Traona, a venti chilometri, ma ha fatto un giro tortuoso prima di decidere che questo era il suo posto. «Sono andata fino in India per cercare qualcosa che non trovavo, 15 anni fa sono arrivata qui, dietro casa ma non c’ero mai stata, ho capito che era il mio posto e mi sono fermata» racconta. Nella vita precedente era floro-vivaista, oggi è rifugista, l’unica dipendente dell’associazione. «Tradotto vuol dire che faccio tutto quel che c’è da fare, dalla cucina alla sistemazione di quello che non funziona». Elena si ferma a Codera undici mesi, tranne gennaio. «Ogni volta che salgo mi sembra di lasciare qualcosa di pesante, giù in valle. Qui invece c’è un’atmosfera particolare, qualcosa di diverso, dai colori alla vicinanza con la natura, che genera un’energia vitale che non ho trovato altrove» spiega. «Se ci si accontenta della semplicità, si trova tanto. E poi è stimolante, ci sono sempre cose da fare, problemi da risolvere, idee da farsi venire, le giornate passano veloci e comunque siamo meno isolati di quel che sembra. Qui c’è sempre gente, scambio, incontri». Vero, si è portati a pensare che questo sia un posto isolato e invece è sorprendentemente trafficato. In un fine settimana autunnale neanche dei più clementi si trovano gruppi di tedeschi entusiasti che sono sette volte che vengono, camminatori svizzeri solitari e silenti, una famiglia anglosassone che sale leggera con due bambini al seguito. E poi coppie che cercano qualcosa di diverso dalla solita montagna «e questo ci sembra il posto giusto», ma soprattutto tanti scout, con uniforme o senza.
Questa valle costituisce un po’ il santuario dello scoutismo italiano – racconta Paolo Magini –. Hai mai sentito parlare delle Aquile Randagie?». No, ed è un peccato. Le Aquile Randagie sono state un gruppo di giovanissimi scout milanesi e monzesi che dopo lo scioglimento degli scout voluto dal fascismo nel 1927 sono entrati in clandestinità. «E hanno eletto la Val Codera a loro patria, tenendoci regolari campi estivi per tutto il lungo periodo che tra gli scout è noto come “giungla silente”» spiega. Oggi gli scout in valle hanno due basi che frequentano tutto l’anno. Così molti di quelli che periodicamente tornano, la prima volta ci sono stati quando avevano il fazzoletto al collo. Tra loro anche Andrea Meregalli, pavese, gestore della Locanda che si trova sulla piazza della chiesa, anche lui da forestiero è diventato residente. «Ero stato qui a 13 anni, per un campo estivo e ricordo che quando sono tornato a casa ho detto “mamma, io vado a Codera”. Ci ho messo 35 anni a farlo, anni in cui ho lavorato come tutti ma era una vita votata al rendimento. Io cercavo altro, volevo riappropriarmi dei tempi della natura senza però isolarmi totalmente», racconta seduto a uno dei tavoli della grande stanza dove accoglie gli avventori. «Cercavo un posto isolato che non fosse un rifugio di alta montagna, volevo questa dimensione quotidiana, dove alcuni giorni c’è molta vita e altri puoi goderti la solitudine» spiega. Sei anni fa l’ha trovato. «Ho imparato a far tutto, perché non ero un oste ma mi occupavo di formazione. Ma qui non sei solo uno che cucina, sei parte di una comunità e dunque un posto come questo diventa un riferimento, perché se vivi in una dimensione rarefatta le relazioni basilari diventano necessarie» aggiunge.
A Codera dunque arriva chi è in cerca di una dimensione umana e ambientale diversa. All’Osteria Alpina, per esempio, girano sempre molti volontari dell’Associazione, oltre a tre, quattro wwoofer, viaggiatori che ricevono vitto e alloggio in cambio di una mano nei lavori quotidiani e soprattutto dei campi. «Stiamo cercando di far rivivere l’agricoltura alpina di un tempo – spiega Giardini –. Oltre a portare avanti l’orto della biodiversità finché la stagione lo permette, coltiviamo mais da cui otteniamo farina per polenta. E poi fagioli bobis e i borlotti di Codera, due varietà autoctone, oltre a patate antiche. Da quest’anno stiamo provando con lo zafferano, che potrebbe assicurare un buon reddito». L’Associazione si occupa del territorio davvero in tutti i modi. «Sulla montagna davanti al paese un tempo erano tutti muretti a secco costruiti nei secoli, ora è tutto bosco. Tra le attività c’è il recupero di questi terreni, oltre alle giornate di sfalcio, dove grazie ai volontari teniamo puliti i prati residui» prosegue. «L’idea è avere campi a sufficienza per permettere a una famiglia di giovani che voglia trasferirsi qui di vivere con l’agricoltura» confida Giardini. E poi c’è l’idea di trasformare il borgo in un albergo diffuso. Alte e di pietra chiara, con i tetti in piode, le case sono quasi tutte sistemate, ma ormai pochi le aprono per tutta estate. «L’ideale sarebbe gestirle per poter ospitare chi si vuole fermare, perché alla locanda abbiamo solo 16 posti. Ce ne sarebbero un’altra trentina, ma vanno fatti i bagni e vanno sistemate» aggiunge.
La domanda non manca: chi arriva in Val Codera se ne innamora. Sia per l’ambiente umano, sia per quel mormorio lieve che senti la notte, le tante declinazioni del silenzio, il cigolio sommesso del vento, il tintinnio dei boschi in cui anche il rumore di una castagna che cade sembra frastuono. E allora si capisce come mai decidano di tornarci, non per una gita in giornata ma per fermarsi. Sembra strano ma in realtà è normale, perché c’è sempre più gente che cerca luoghi fuori mano, non omologati, spartani e genuini, dove praticare un modo diverso dello stare assieme. Un posto un po’ discosto dal flusso della storia, che – come spesso si dice – è rimasto così indietro che adesso rischia di trovarsi avanti. La Val Codera, si è capito, è un posto che scegli, non ci capiti per caso. Anche se certo, per decidere di fermarsi a viverci serve coraggio. «Coraggio dici? – si chiede Andrea –. No, il coraggio serve per continuare a vivere ai ritmi della pianura, mica qui».