Roma, per la via Sacra

Daria AddabboDaria AddabboDaria AddabboDaria Addabbo

Un itinerario guidato nelle chiese romane alla scoperta delle icone e dei loro diversi significati

Secondo Karol Wojtyla il cristianesimo tornerà a respirare a pieni polmoni solo dopo la ricongiunzione tra cattolicesimo e ortodossia. Finché Oriente e Occidente resteranno divisi, la respirazione sarà a un polmone solo. è ispirato a questo smarrito slancio il percorso delle icone a Roma, un pellegrinaggio di prossimità nato a causa del Covid, quando sulle lunghe distanze anche i viaggi religiosi si sono inevitabilmente interrotti

Qualcuno magari ignora che gli ortodossi si fanno il segno della croce in senso antiorario o altri particolari rituali, ma tutti riconoscono nell’icona l’espressione della loro devozione. Eppure questa “finestra sull’assoluto” appartiene all’intero cristianesimo, fin dagli esordi ormai remoti e dimenticati. Il pellegrinaggio di recupero del secondo polmone a Roma inizia nella chiesa di S. Maria in via Lata (oggi via del Corso), dove secondo la tradizione l’evangelista Luca ha vissuto, dipinto le prime sette immagini della Madre di Cristo e scritto gli Atti degli apostoli. Nato nell’attuale Siria, Luca è dunque il primo pittore di icone e il patrono degli artisti. Le Madonne da lui dipinte hanno dolci occhi scuri e severi lineamenti orientali. A ideare e condurre l’itinerario Giorgio Picu, parroco di Civitavecchia per 26 anni e poi “padre viaggiatore” cioè accompagnatore dell’Opera Romana Pellegrinaggi. Nato a Costanza, sul Mar Nero (Romania), ha fatto la difficile scelta del seminario in un regime comunista e infine quella ancora più ardua di passare dall’ortodossia al cattolicesimo, scelta che ha pagato con l’esilio. Cresciuto tra le icone, non ne ha dimenticato il valore trascendentale, mentre i cristiani d’Occidente non sanno più rapportarsi alla dimensione che esprimono.

«Quando faccio da guida in Terrasanta ci sono persone che vogliono comprare le icone e chiedono quando sono state fatte» racconta padre Giorgio. «A un orientale non importa. L’icona non viene firmata né datata ed è un atto di preghiera da parte di un monaco o di un laico che dipinge nelle ore in cui riesce a digiunare. Il suo valore è dato da quanti hanno pregato di fronte a quella immagine. Lo sguardo, essendo la finestra dell’anima, è la parte più importante. Ecco perché gli occhi sono spesso tanto grandi nel Cristo Pantocratore, nella Madonna Odigitria e nelle altre immagini. Attraverso i loro grandi occhi accedi all’infinito. L’icona è il terreno d’incontro tra il fedele e l’eternità. Per questo si considera sacra e miracolosa. Un altro aspetto importante è la simbologia dei colori. La presenza della Grazia si rappresenta nello sfondo oro. Quando sento, di fronte all’oro delle chiese, dire: ma quanta ricchezza... Penso a una lettura fuorviante».

 

Al netto dei fraintendimenti iniziali, nel vostro pellegrinaggio metropolitano riemerge un cristianesimo unito.
«La chiesa cristiana all’inizio era unita. Nasce in Medio Oriente e si allarga alla realtà greco-romana. Agli ebrei era proibito fare immagini sacre. Il cristianesimo non subisce questa proibizione, anche perché Dio si è fatto uomo in Cristo. Continua la cultura greco-romana sviluppando l’arte pagana – la pittura ma anche la scultura – e portandola a perfezione. L’unica strozzatura emerge nel periodo dell’iconoclastia tra l’VIII e il IX secolo. La lotta alle immagini deriva dall’Islam e tocca in modo particolare il mondo orientale, sottoposto alla pressione araba, ma non trova terreno fertile a Roma».

Come si sviluppa il percorso di visita tra le icone romane? «Dopo la casa di San Luca (la chiesa di S. Maria in via Lata, ndr), dove c’è la prima icona dedicata alla Madonna e da lui dipinta, andiamo vicino a palazzo Chigi a vedere quella della Madonna del Pozzo (in S. Maria in Via, ndr) ritrovata appunto in un pozzo e ritenuta miracolosa, poi il crocifisso di S. Marcello, quasi di fronte a S. Maria in via Lata».  Anche il crocifisso distingue Oriente e Occidente... «Con la fine dell’iconoclastia, permane in Oriente il divieto della scultura e i crocifissi ortodossi sono bidimensionali e dipinti. In Occidente la figura di Cristo può essere scultorea e tridimensionale oltreché pittorica. Quello di S. Marcello al Corso è stato dipinto da un maestro senese ed è considerato miracoloso perché si è salvato da un incendio che ha distrutto la chiesa e ha protetto Roma dalla terribile pestilenza del XVI secolo. Quindi passiamo alla chiesa di S. Francesca Romana, che conserva l’icona che si trovava prima a S. Maria Antiqua, nel Foro Romano. Dopodiché si va a S. Maria Maggiore, dove c’è la famosa icona venerata da papa Francesco prima di qualsiasi missione. Già che siamo in zona andiamo a vedere l’icona della Madonna del Perpetuo Soccorso, nella chiesa neogotica di S. Alfonso Maria de’ Liguori, in via Merulana. È un’icona bizantina del IV secolo, portata a Roma nel periodo iconoclastico. Tante icone sono state portate quando c’era la lotta contro le immagini sacre. I monaci perseguitati si sono rifugiati a Roma dopo travagliati viaggi mettendo in salvo icone miracolose e dipingendone altre grazie ai papi che davano loro spazio. E così abbiamo tutte le absidi bizantine di Roma del VII e VIII secolo».

Quanto è lungo il percorso di visita e quanto dura?
«Se i partecipanti sono giovani, andiamo a vedere anche l’icona bizantina di S. Maria del Popolo. Quando gli ortodossi vengono qui rimangono sbalorditi dalla presenza di tante icone nelle chiese romane. “Ma quella è ortodossa!”, dicono. No: l’icona è la stessa per tutti. Se i partecipanti sono più anziani facciamo il percorso breve. È lungo circa quattro chilometri e dura sulle tre ore, compresi i momenti di silenzio e raccoglimento spirituale che si creano di fronte alle icone. C’è una grande sete di conoscenza e spiritualità: vorrebbero sapere molto di più. Rimangono sbalorditi da tante realtà simboliche che non gli erano mai state spiegate. Sono stato a Lourdes con un gruppo di pellegrini e abbiamo visto una celebrazione molto bella. C’erano tanti chierichetti e a un certo momento, tornando dall’altare, hanno messo le mani sul petto. Mi è piaciuto molto il gesto e alla fine della messa gli ho chiesto: qualcuno vi ha spiegato il significato del gesto? La liturgia romana cerca di partecipare della liturgia celeste. Quando mettete le mani sul petto raffigurate le ali degli angeli in adorazione. È un peccato non spiegare una simbologia tanto bella e questo vale anche per le icone». 

Ci spiega il rapporto del cristianesimo orientale con le icone? 

«Ogni cristiano ortodosso ha un angolo della casa dove tiene le icone rivolte verso Oriente, vicino a un lume con lo stoppino sempre acceso. Per noi fa parte dell’atmosfera di qualsiasi famiglia. La differenza tra praticante e non praticante si sente meno perché anche chi non pratica ha le icone e fa un minimo di preghiera o il segno della croce. Leggevo da qualche parte che un cardinale americano è più laico di un ateo dell’Europa orientale. La battuta rende l’idea. Un mio compagno di scuola, figlio di comunisti, è entrato in chiesa per la curiosità di vedere una Messa. A un certo punto la sete di conoscenza era sazia, ma non usciva perché aveva paura di disturbare. Anche se era un bambino ed era cresciuto in un contesto ateo, aveva percepito che dentro quella chiesa stava succedendo qualcosa».

Invece in Occidente cosa è rimasto del rapporto con le icone? 
«A livello ufficiale molto purtroppo si è perso. A livello individuale c’è il desiderio di riappropriarsene. Accade in generale per l’arte. La chiesa di oggi non è più mecenate. Se Bach fosse vivo oggi morirebbe di fame. Nella mentalità di un parroco non c’è l’idea di pagare un organista. Se qualche studente viene a suonare gratis bene, se no niente. Il popolo apprezza la dimensione artistica della fede, ma le istituzioni l’hanno persa. L’Oriente ha una grande spiritualità ma resta confinata nei luoghi di culto. L’Occidente ha una grande capacità organizzativa, ma rischia di diventare una organizzazione umanitaria. Ecco il discorso dei due polmoni. L’Oriente ha bisogno della capacità organizzativa della chiesa occidentale, ma l’Occidente ha bisogno del contenuto spirituale dell’Oriente. L’Occidente è molto pragmatico. Se il prete fa una messa che dura più di 50 minuti si inizia a guardare l’orologio. Ricordo una liturgia nella chiesa di Cristo Salvatore a Mosca in cui ho portato un gruppo di italiani. Avevo spiegato loro il rito bizantino, erano in grado di capire tutti i momenti; ma dopo mezz’ora sono usciti. Non ho mai smarrito un pellegrino in qualche santuario. Nei negozi sì...».

Fotografie di Daria Addabbo
Peso: 
6