di Vincenzo Patanè | Illustrazioni di Gianluca Biscalchin
Il grande poeta inglese amava l’Italia: fu a Milano, Pisa, Genova, ma è in laguna che lasciò un segno indelebile. Siamo andati alla scoperta dei luoghi dove “l’inglese pazzo” visse, scrisse e amò a suo modo, senza inibizioni
A distanza di due secoli, sono numerose le tracce che ricordano il soggiorno, dal 1816 al 1819, di George Byron a Venezia, che fu fortemente segnata dalla sua presenza. Fu lui a creare un diverso modo di percepire la città che influenzerà tanti visitatori successivi. Nel suo improvvisato autoesilio, Lord Byron approdò in Italia convinto che qui avrebbe trovato serenità e forse una nuova patria.
Era stato infatti costretto a lasciare in fretta e furia l’Inghilterra («l’angusta piccola isola»), tacciato dall’opinione pubblica di una serie di accuse particolarmente gravi in quella società: adulterio, incesto, sodomia, omosessualità, amore libero nonché la veemenza con la quale contestava il perbenismo aristocratico. Lo scrittore arrivò a Venezia in una piovosa domenica, il 10 novembre 1816, assieme a John Cam Hobhouse, il suo migliore amico. I due si sistemarono nel lussuoso hotel Gran Bretagna (Ca’ Farsetti, l’attuale sede del Comune). Alcuni giorni dopo – mentre Hobhouse andò ad abitare in Calle degli Avvocati, al numero 3056 – Byron affittò alcune stanze presso il mercante di panni Pietro Segati, che aveva casa e negozio in Frezzaria (San Marco 1673, ora Locanda Antica Venezia, nel cui interno è stata posta nel gennaio 2020 una targa in ricordo). Ben prima di andarci, Venezia occupava un posto particolare nel suo cuore, tanto da fargli dire: «è sempre stata (accanto all’Oriente) l’isola più verde della mia immaginazione».
Non a caso, Venezia era imbevuta di quell’Oriente da cui Byron fu attratto fin da fanciullo: luci, colori, odori, sapori e soprattutto i monumenti orientaleggianti o tappezzati di lacerti carpiti, nel corso dei secoli, a Bizantini e Ottomani. In compenso, sembrava non possederne i difetti, come un indolente lassismo o la brutalità a cui Byron aveva assistito de visu a Costantinopoli. Nel contempo, la palpabile decadenza della città – che aveva perso l’indipendenza e il dominio sui mari – gli ricordava la romantica fatiscenza della sua casa avita di Newstead Abbey. Così si appassionò alla storia veneziana, riservando pagine intense ai suoi monumenti più rappresentativi, come il Palazzo Ducale (dove il drappo nero al posto del ritratto del doge Marino Faliero gli fornì lo spunto per il dramma omonimo) o il Ponte dei Sospiri (che John Ruskin definì «il centro dell’ideale byroniano di Venezia»).
Byron girò in lungo e in largo per la città, cosicché sono tanti i luoghi ancora impregnati di ricordi suoi. Lo scrittore – che amò definirsi «cittadino del mondo» – vi si trovò a suo agio, a onta dei ponti ostici per il suo piede zoppicante: gli piacquero la «malinconica gaiezza delle gondole», il «silenzio dei canali», il brusio e il vociare che echeggiava nel dedalo delle calli affollate, le «corti sconte» dove si poteva amoreggiare nascosti, illuminati dalla luna. A esaltarlo poi ci fu anche il Carnevale, un evento che, coinvolgendo l’intera città in una sfrenata giocosità, ne metteva maliziosamente a nudo, tra tabarri e baute, i vizi più segreti. Byron ne visse tre freneticamente, esaurendo ogni energia in avventure amorose che si accavallavano senza sosta.
Altri fattori che giocarono a favore della città furono il rapporto viscerale che la legava all’acqua, cosa importante vista la sua passione per il nuoto, oppure il dialetto veneziano, fresco e accattivante, che in breve tempo parlò speditamente. A questo proposito, in quegli anni volle imparare anche l’armeno – una lingua difficile, appresa per mettere alla prova la propria bravura – sotto la guida di Padre Paschal, nell’isola di San Lazzaro degli Armeni (qui si può visitare la stanza dove studiò e in cui una targa ricorda la sua amicizia con il popolo armeno).
Gli anni veneziani furono vissuti da Lord Byron intensamente, in maniera esasperata, così da procurargli un sensibile decadimento fisico. Le sue giornate furono scandite da ritmi ben precisi: lo studio a San Lazzaro, le rilassanti nuotate in laguna, le lunghe cavalcate al Lido (anche assieme a Percy Bysshe Shelley, quando questi andò a trovarlo nel 1818), il mangiare (spesso presso l’Osteria del Pellegrino, a San Basso, chiusa nell’Ottocento), gli incontri galanti, il teatro e infine la scrittura, portata avanti anche in piena notte. Così in quei tre anni la sua presenza finì per colorare notevolmente la vita cittadina. Anche perché non ci volle molto affinché i suoi eccentrici comportamenti, condotti con voluta ostentazione, diventassero di dominio pubblico.
Le stravaganze “dell’inglese pazzo”, raccontate senza sosta dai gondolieri, destarono infatti scalpore, come il nuotare nel Canal Grande completamente vestito oppure di notte con una torcia accesa in mano. O più che mai la gara di nuoto nel giugno 1818 vinta contro il cavalier Mengaldo, lo scozzese Scott e il console Hoppner nella quale, mentre gli altri si arresero lungo il percorso, Byron nuotò ininterrottamente per più di quattro ore, dal Lido fino alla fine del Canal Grande.
In una vita mondana legata ancora a riti settecenteschi, i luoghi privilegiati per intessere rapporti furono i teatri e i salotti. Byron frequentò tutti i teatri importanti della città: la Fenice (dove nell’ultimo giorno di Carnevale si svolgeva il ballo mascherato della Cavalchina), il San Beneto (oggi cinema Rossini), il San Luca (ora teatro Goldoni), il Ridotto (ora inglobato nell’hotel Monaco & Grand Canal) e il San Moisè (in calle Teatro San Moisè, non esiste più).
Parimenti fu di casa in numerosi salotti patrizi pullulanti di pettegolezzi e intrighi, in cui tante nobildonne fecero a gara per godere della sua celebrata bellezza e della conclamata abilità nel fare l’amore. Byron ne frequentò soprattutto tre: quello della contessa Isabella Teotochi Albrizzi (Calle Cicogna, vicino a San Moisè, in cui una targa ricorda il suo cenacolo, bazzicato anche da Foscolo, ma anche Palazzo Albrizzi, Calle Salviati 1940), quello della scrittrice Giustina Renier Michiel (Corte Contarina, San Moisè) e il salotto, meno letterario ma più vivace tenuto dalla contessa Marina Querini Benzon (Palazzo Benzon, San Marco 3927).
Lo scrittore fu un divertito osservatore delle consuetudini veneziane, a cominciare da quelle sentimentali che a Venezia – pervasa da un’atmosfera che trasudava erotismo a ogni angolo, come scrisse nel Beppo – si esprimevano secondo codici per lui singolari. Così, rimase incuriosito dal fatto che le donne veneziane, fiere e procaci, «si sposano per i genitori e amano per sé»; era infatti usuale, nonché socialmente approvato, che al posto del marito al loro fianco ci fosse spesso un amante, al quale veniva richiesta fedeltà assoluta.
Lungi dal condannarli, Byron sposò in toto questi costumi (tranne l’usanza del “cavalier servente”, che non sopportava). Intraprese una vita sessuale vorace, che lo rigenerò anche sul piano letterario; la permanenza veneziana infatti rappresentò una salutare svolta nella sua poesia, dando luogo a opere come il Beppo e il Don Juan, intrise di una frizzante ironia.
Byron ebbe un’instancabile iperattività, cosicché a tanti sembrò rinverdire le gesta di Giacomo Casanova, ancora vive in città. In una lettera del settembre 1818 fece il conto delle sue amanti: «almeno duecento di un tipo o dell’altro – forse di più – poiché ultimamente non ne ho più tenuto il conto». Era fondamentale che fossero belle, ma per il resto potevano appartenere a ogni ceto sociale, dalla cantante d’opera Arpalice Tarruscelli alla diciottenne Anzolina che abbandonò nel momento in cui la ragazza iniziò a pretendere una relazione stabile.
Non ci fu posto per lui che non fosse adatto a incontri erotici, a cominciare dalle gondole chiuse grazie al felze. Affittò un casino in campo Santa Maria Zobenigo (di cui non si conosce l’esatto luogo), fuori del quale stazionava una pletora di amanti, patrizie e popolane, che non di rado dettero vita a baruffe esilaranti.
Per tutto ciò ebbe bisogno di molti soldi, tanto è vero che confidò all’amico Webster che più della metà di cinquemila sterline, una cifra enorme per l’epoca, era stata «investita nel sesso». Così pretese dal suo editore Murray che gli si pagassero con puntualità i proventi delle sue opere, affermando che «quello che guadagnava col cervello voleva spenderlo per i lombi».
Oltre alle tante amanti occasionali, ebbe due relazioni serie e profumate d’amore reciproco, con Marianna e Margarita, entrambe ventiduenni e sposate. La prima era la moglie del suo locatore Pietro Segati. La loro relazione fu nota in città, tanto che il popolo, a proposito dell’insegna del negozio che rappresentava un cervo, la ribattezzò scherzosamente “corno inglese”.
Dotata di una certa cultura nonché fine cantante, Marianna si mostrò disinibita sul piano fisico e soprattutto gelosissima, tanto da schiaffeggiare la cognata diciannovenne intenta a sedurre l’ospite inglese, per poi farsi trovare dal marito in preda a convulsioni. Dopo alcuni litigi, il suo posto fu preso da Margarita Cogni, “la fornarina” (in quanto moglie di un fornaio di Mira), che stregò con la sua decisa personalità Byron (il quale la definì «adatta a generare gladiatori»). Fu dunque costretto a trovarsi un’altra dimora: nel maggio 1818 affittò un piano nobile del prestigioso Palazzo Mocenigo (San Marco 3348, sulla cui facciata sul Canal Grande campeggia una targa che ricorda il suo soggiorno). Lì andò ad abitare con sua figlia – la piccola Allegra – i domestici Fletcher e Tita, i suoi tanti animali e la stessa Margarita.
Quest’ultima, anch’ella quanto mai gelosa, diventò di fatto la padrona del palazzo, comandando a bacchetta i servi e mettendo alle corde lo stesso Byron, il quale da parte sua evitò che si scontrasse con l’andirivieni di prostitute che c’era. Alla fine lo scrittore, stanco di fronteggiare le sue bizze e le bravate – come quando lo ferì con un coltello o quando si buttò teatralmente in canale – riuscì a mandarla via.
Byron ebbe anche numerosi ragazzi, come si evince da una famosa lettera di Shelley allo scrittore Peacock, in cui bolla con parole infuocate gli eccentrici stili di vita dell’amico, non celando il proprio sconcerto, e non solo per i rapporti omosessuali.
Comunque sia, a suo modo Venezia – che Byron abbandonò nel dicembre 1819 per raggiungere a Ravenna Teresa Guiccioli, di cui si era innamorato – offrì allo scrittore l’opportunità di dar corpo a un’utopia che aveva un posto ben saldo nel suo immaginario: una città incantata differente da ogni altra, impalpabile ed evanescente frontiera tra l’Occidente e l’Oriente, sospesa magicamente fra cielo e acqua, intrisa di mito e di tradizione letteraria e però reale.