La viaggiatrice. Quanto sei (ancora) bella, Roma...

Passeggiando nel parco della via appia

Tra il secondo e il terzo miglio della via Appia antica, la Regina Viarum con le sue nere pietre luccicanti, si entra nella Villa di Massenzio (nella foto) preparati allo stupore, ma forse non alla magnificenza. È un altro mondo questo mondo antico. Non c’è bisogno di immaginazione per dargli senso ricostruendo com’era: ogni rovina ha la sua struggente bellezza e il passato è solo un fantasma che si è distaccato dal corpo e osserva dall’alto ciò che resta. Il Palazzo imperiale, il Mausoleo e il Circo: dei tre complessi che Massenzio fece edificare qui, il Circo è quello che si offre con più cedevolezza alle suggestioni del visitatore. Non solo per la sua ariosa imponenza: 513 metri la lunghezza, 91 metri la larghezza nel punto più ampio. Ma anche perché il suo stato di conservazione – è il miglior esemplare di circo romano giunto fino a noi – dipende forse da una specie di destino inespresso, da una beffa, un girare a vuoto: voluto dall’imperatore con l’ovvia intenzione di proiettare se stesso nell’eternità, il potere di cui era simbolo durò appena sei anni, dal 306 al 312, quando Massenzio capitolò di fronte al rivale Costantino nella battaglia di ponte Milvio. È probabile che il circo, come tutto il complesso della villa, non fu mai usato, o usato pochissimo. Sotto un cielo di timide nubi sgominate da un azzurro prepotente, la terra rossa si allunga nello spazio gigante, il verde dell’erba si distende a ondate, chiazze di margheritine gialle si gettano come un tappeto pop in mezzo a un maestoso salone di rappresentanza. Lecci, querce, gli eterni pini mediterranei si addensano in gruppi compatti lungo i bordi dove un tempo c’erano le gradinate degli spettatori. 

Due ragazzi con la giacca a vento rossa sdraiati sul prato fissano il cielo. Una signora tedesca con vestito rosa a maniche corte scandisce per un uditorio distratto le informazioni della guida. Giapponesi minuscoli con grandi occhiali da sole si aggirano a passettini. È commovente la resistenza delle rovine ormai diventate parte della natura che le assedia, materia della stessa materia di cui è fatto il mondo, grazie all’artigianato del tempo che tutto riduce, smussa e impasta. Le due torri smangiucchiate, all’ingresso ovest vicino ai dodici box di partenza dei cavalli, puntano verso l’alto in uno slancio rimasto a mezz’aria, pietrificato per sempre. Sul lato nord est, il palco imperiale privo della sua opulenza marmorea ne ha conquistato un’altra, arborea: circondato com’è dagli alberi che mettono radici in ogni piccolo varco tra i mattoni. A metà della spina, l’asse centrale che divide i due corridoi del circo, c’era un tempo l’obelisco di granito di Assuan, voluto da Domiziano nell’81 d.C., trasportato qui per volere di Massenzio nei primi anni del suo regno e poi di nuovo spostato nel 1651 da Gian Lorenzo Bernini per la sua fontana dei fiumi a piazza Navona: un raggio di sole solidificato, questo era l’obelisco nella simbologia egizia. Perciò, anche se non c’è più, sotto questo sole, il suo luccichio sembra ancora presente.

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