Svizzera. Le Verità di un Monte

La storia di un sogno libertario e naturista a pochi passi dal confine. Ora in mostra

 Si chiamavano Ida, Henri, Gustav e Karl. Una pianista tedesca, un ricco ereditiere belga, due fratelli rumeni, uno ex soldato e l’altro poeta, e si erano conosciuti negli ambienti della Lebensreform di Monaco di Baviera (movimento culturale che rinnegava la società urbana).Insieme, decisero di andare alla ricerca di un luogo da eleggere a propria dimora. Cercavano un posto dove vivere a modo loro. Lontani dalle ciminiere che stavano cambiando i paesaggi europei. Già perché era la fine dell’Ottocento della rivoluzione industriale e a loro non piaceva quello cui stavano assistendo: la grande espansione delle città, le sempre più evidenti disparità sociali, l’inquinamento, la devastazione nel fisico e nella mente degli esseri umani. Dopo estenuanti vagabondaggi sulle Alpi approdarono nel 1900 su una collina affacciata sul Lago Maggiore, appena sopra la città di Ascona, nel Canton Ticino. La Svizzera, e quella zona in particolare, erano la meta prediletta di molti che oggi definiremmo alternativi. Molti anarchici, alcuni rifugiati politici, qualche giovane senza fissa dimora e pure numerosi scappati di casa tout court. Le acque che sembrano chete del Lago Maggiore svizzero non erano allora poi così chete. Ida e Henri (Gustav e Karl un po’ meno), avevano un’idea ben precisa di quello che avrebbero voluto realizzare: una comunità aperta a tutti dove lavorare la terra, vivere con quello che questa forniva, fare bagni di sole, essere vegetariani e, perché no, stare poco vestiti se non nudi. La parità sessuale, l’abiura di ogni vincolo familiare o matrimoniale, l’emancipazione di donne e figli a completare il quadro. Se non fosse che la parola hippy era ancora molto al di là da venire coniata e soprattutto utilizzata (la usò un giornalista americano nel 1965 per descrivere le comunità beatnik di San Francisco), ora li avremmo chiamati così. Senonché tra le regole da seguire c’era il divieto di utilizzare qualsiasi forma di droga, alcol e sigarette. 

Ida soprattutto era la mente dietro questo nuovo modello di vita. L’energica pianista ha Tolstoj come punto di riferimento: «Abbiamo le mani per arare, per procurarci il cibo che ci necessita». Lei stessa descrive nei suoi quaderni che si auto pubblicherà: «Uomini e donne lavoravano con vanga e scalpello, trascinavano travi, segavano e piallavano». Sempre a Ida pare vada il merito di aver coniato il nome di questa comunità alternativa, Monte Verità a indicare che le persone che decidevano di salire quella collina erano appunto alla ricerca della verità: «Noi non sosteniamo affatto di aver trovato la verità, di volerla monopolizzare, bensì che tendiamo, contro gli atteggiamenti spesso menzogneri del mondo degli affari e dei diffusi pregiudizi della società, a essere veri con le parole e con le azioni, per eliminare la menzogna e aiutare la verità a trionfare». I vibranti j’accuse alla società contemporanea di Ida arrivarono alle orecchie giuste e i bizzarri quattro capelloni (gli uomini avevano smesso di radersi barba e capelli) si moltiplicarono rapidamente, attirando sul Monte i personaggi più bizzarri che si spogliavano (letteralmente) di ogni vestigia civilizzate per mettersi al lavoro. Eliminati i pudori emergevano le diverse personalità, come dimostrano le foto e i video esposti fino al 10 aprile al Museo del Novecento di Firenze per la mostra Back to Nature che, alla storia del Monte Verità e dei suoi pionieri, dedica gli spazi della corte interna. Quello che colpisce, oltre all’incredibile modernità del pensiero sviluppato dai fondatori, è la ferma ricerca di benessere psicofisico. Il menu vegetariano al limite del veganesimo, la cura del corpo, l’esercizio fisico, la ricerca di una rinnovata connessione con la natura, il rispetto assoluto per l’ambiente potrebbero essere gli slogan di una manifestazione dei ragazzi di Fridays for Future. Se non di uno chicchissimo (e costosissimo) retreat californiano. Ma l’eredità del Monte Verità fino in California ci è arrivata davvero. Ha raggiunto persino Steve Jobs decenni dopo. Un viaggio tortuoso ma non poi così tanto.    Mentre Henri sperperava tutta la sua eredità per costruire le prime case aria-luce, piccoli chalet in legno con tante finestre, spartani ma ideali per proseguire coi bagni di sole anche stando a letto, Ida trasformava la comunità in un originale sanatorium, dove accogliere le migliori menti anticonvenzionali d’Europa. Stabilito che gli ospiti avrebbero lavorato a piacimento e non più di 5/6 ore al giorno, il resto del tempo era riservato certamente alla cura del corpo ma anche della mente. Concerti, discussioni, dibattiti erano all’ordine del giorno. Su una parete della mostra fiorentina intitolata “Utopia” ci sono i ritratti di alcuni visitatori del Monte Verità nel corso degli anni: ci sono gli anarchici Koprotkin e Bakunin e lo psicanalista Jung, i ballerini Isadora Duncan, Rudolf von Laban e Charlotte Bara, l’artista e poeta Jean Arp, Walter Gropius. ia sicuramente illuminata ma non abbastanza da voler stare nelle case aria-luce. L’anima di Monte Verità cambiò ma non troppo. Il via vai di menti eccelse proseguì. 

E anche Herman Hesse che si ispirò proprio al suo soggiorno sopra al Lago Maggiore nel 1907 per scrivere il racconto Der Weltverbesser. «Per l’uomo di città nulla è più tonificante che giocare per qualche tempo a fare il contadino, stancare il corpo, andare a dormire presto e levarsi all’alba; tuttavia le abitudini ereditate e acquisite, insomma quella serie di bisogni, che l’uomo ha in sé dalla nascita e impara nell’infanzia, non si possono mutare come si cambia una camicia...» ebbe a scrivere dopo tre settimane di permanenza. L’apporto di cultura, colore e calore umano non bastava però a rendere il sanatorium economicamente efficiente. Anzi, era un disastro, tanto che le tasche di Henri a un certo punto furono prosciugate e in più Ida voleva portare altrove le sue idee. Nel 1920 i due fondatori del Monte Verità salparono alla volta del Brasile dove se ne persero le tracce dopo un vano tentativo di aprire un’altra comunità ai Tropici. Lasciarono il tutto nelle mani di alcuni amici artisti che non risanarono il sanatorium. A subentrare al potenziale sfaldamento fu un originale personaggio tedesco, il barone von der Heydt, banchiere, collezionista e appassionato di Oriente e di yoga. La connessione mente corpo gli fece intravedere un business un po’ meno poetico, ma più efficiente, tanto da aprire un hotel in stile Bauhaus in grado di ospitare la borghesia sicuramente illuminata ma non abbastanza da voler stare nelle case aria-luce. L’anima di Monte Verità cambiò ma non troppo. Il via vai di menti eccelse proseguì. 
A raccontare questo incredibile incrocio di menti ed esperienze, talvolta di successo altre meno (non mancano cronache e aneddoti di ospiti che fuggivano nottetempo alla ricerca di bistecche e vino) fu poi Harald Szeemann, curatore e storico dell’arte svizzero che, quando giunse per la prima volta al Monte Verità, decise di raccogliere tutto il materiale possibile su quell’esperienza e trasformarlo, nel 1978, in una mostra itinerante dal titolo Le mammelle della verità. Szeemann lesse infatti questo luogo come madre putativa di molti movimenti filosofici, culturali, sociale e artistici che hanno poi segnato il Novecento. Oggi quella mostra occupa gli spazi di Casa Anatta, costruita nel 1904 e abitata proprio da Ida e Henri, anch’essa opera d’arte e architettura. Una sala dopo l’altra il racconto delle utopie che si svilupparono in tutta la zona è la summa di gran parte del pensiero laterale (o alternativo) di filosofie tornate in voga decenni dopo. «Monte Verità non è un istituto di cura naturale nel senso consueto, ma semmai una scuola di vita superiore, un luogo per lo sviluppo e la raccolta di conoscenze allargate e di allargate consapevolezze», scriveva Ida. Tra i personaggi più inusuali trascorse lunghi periodi sul colle anche il misconosciuto ai più Arnold Ehret. Pseudo scienziato con la fissazione del digiuno curativo (in una sua performance del 1909 al museo delle cere di Colonia rimase chiuso in una scatola e non mangiò per 49 giorni di fila), elaborò proprio durante i suoi soggiorni al Monte “la dieta senza muco” per eliminare scorie. Il menù prevedeva l’assunzione di frutta e verdura non cotta. E mele. Tante mele. Negli anni Settanta la sua dieta divenne l’ossessione di molti hippy. Alcuni di loro erano anche nerd e costruivano computer nei garage cibandosi di sole mele. Del Monte Verità nulla sapevano, ma forse, grazie a quelle mele cadute sulla testa di Ehret su quella collina di Ascona, oggi molti di noi vanno in giro con un Apple in tasca. Sono solo cinque i gradi di separazione da Ida, Henri, Arnold, Steve Jobs e le nostre tasche. 

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