di Diogene | Franco Spuri Zampetti
Con un passato di buen retiro di artisti, resta luogo unico di libertà
«Positano è un luogo incantevole, situato a mezza strada tra Sorrento e Amalfi. Vi si arriva da una strada straordinaria tagliata nelle rocce lungo il mare. “Divina Costiera” si chiama questa strada e questa località. E di fatti è difficile immaginare un altro luogo divino come questo. Tutte le famose strade, tracciate nelle montagne, sopra i fiordi norvegesi, tutte le Axenstrassen svizzere, predilette da tutti i viaggiatori di tutti i paesi, sembrano in confronto cose da poco, quasi ridicole». Michail Nicolajevich Semenov Memorie di un pescatore 1914-1943 (diario del 1916), Milano 1952
Essere turisti di passo a Positano è più facile che a Capri. Al mattino i barconi da Salerno e da Amalfi entrano nel porticciolo, increspando l’acqua immota tra le piccole barche ancorate in rada. Tutti gli abitanti li possono vedere arrivare: dal mare, dalle finestre e dai terrazzi sporgenti dalle case. O nell’unico luogo dove la vista è democraticamente assegnata a tutti: ovvero da terra, dai tornanti che tagliano la scogliera scoscesa di un tempo, ora terrazzata dalla strada, a cui arrivano e da cui scendono le case imbiancate, i giardini orticoli, le chiese dalle cupole con le tegole invetriate, collegate tra loro dalle scalinate strette tra le pareti in muratura che permettono a mala pena a due persone di incrociarsi. A Positano dalla Costiera in auto si può solo scendere, senza possibilità di fermarsi sino al fondo del pianoro che anticipa la spiaggia e da cui partono i camminamenti in cornice sul mare verso le torri saracene che ne sovrastano gli estremi. Qui, non diversamente da Capri, il petillant, l’insolito, l’unicità, furono portati dai fiori del male della cultura dell’Europa del Nord alla fine dell’Ottocento e negli anni della belle époque.
A Capri gli scrittori, a Positano i ballerini. Ambedue portatori di una estetica esasperata nel modo di essere, di vestire, nella architettura delle ville. Sergej Pavlovic Djagilev e il suo segretario Semenov al Mulino D’Arienzo; Leonid Fedorovic Mjasin detto Massine, l’Etoile, nell’isoletta dei Li Galli. Attiravano pittori e artisti, squattrinati e scrocconi, nelle loro incredibili case costruite su ruderi romani o nascoste nella vegetazione, dove tutto era lecito e nulla era proibito. La città verticale, quella dei pescatori e dei piccoli commerci si arricchiva dal via vai sempre più allargato di chi si sentiva partecipe dell’aura data dalla vita degli altri. I villaggi della Costiera amalfitana hanno spesso nelle loro chiese l’immagine della (o del) pistrice, mostro marino che ingoia o risputa Giona, come a Ravello nei mosaici del Duomo, o infissa(o) nella torre campanaria, dove più modestamente mangia un pesce, come a Positano. Mostro con la testa canina, le pinne laterali e il corpo di serpente a doppia voluta ripreso dai sarcofagi di tombe romane dove, nel corteo di Nettuno, nuotava tra sirene e tritoni. La (o il) pistrice si prestava benissimo a sostituire la poco mediterranea balena e a collegare senza contrasti l’Olimpo con la cristianità come ad Aquileia. Figura immaginaria ma radicata nei secoli a raffigurare la paura verso l’ignoto di chiunque si avventuri per mare. Immaginaria come Flavio Gioia di cui una lapide a Positano e una statua ad Amalfi affermano la paternità dell’invenzione della bussola magnetica del loro concittadino. La bussola pacificamente l’hanno inventata i cinesi e forse la portò in Occidente Marco Polo. Flavio Gioia era solo un errore di lettura di un testo antico che citava un Flavio amalfitano che parlava della bussola senza affermarne l’invenzione. E comunque anche Gioia del Colle rivendica di aver dato i natali al mai nato inventore.