di Tino Mantarro | Archivio Tci
L'Abbazia territoriale di Grottaferrata è uno scrigno di tesori legati al libro e all'arte della sua conservazione
Nel guardare quest’immagine, scovata tra le 350mila che costituiscono il patrimonio iconografico dell’Archivio storico del Tci, non si sa da che cosa si rimane più affascinati. Se dalla barba canuta da vecchio saggio di questo monaco dall’età indefinibile, se dalle abili mani rugose che emergono dalla tunica nera e sfiorano le pergamene, o ancora dallo sguardo intenso e quasi amorevole con cui le osserva. Di certo questa foto racchiude tante storie. È stata scattata a metà degli anni Sessanta all’Abbazia territoriale di Santa Maria di Grottaferrata, nel Lazio, per un servizio uscito su Le Vie d’Italia del Tci nell’aprile 1965 e incentrato sulla tradizione musicale bizantina portata avanti dai monaci. Si tratta di un luogo notevole per diversi motivi. È un monastero con oltre mille anni di storia, la prima pietra fu posata nell’anno 1004 da San Nilo da Rossano e dal suo fedele discepolo Bartolomeo che fuggivano dalla Calabria assediata dai Saraceni e portavano con sé la tradizione religiosa bizantina cui erano consacrati.
Tradizione che un millennio dopo perdura in questo che (assieme al monastero femminile di Mezzojuso, in Sicilia) è rimasto l’unico monastero basiliano in Italia in cui si segue il rito ortodosso pur essendo cattolici. Inaugurato il 17 dicembre 1024 il monastero Esarchico (abbaziasannilo.org) è precedente al Grande Scisma del 1054 che portò alla separazione delle Chiese di Roma e Costantinopoli, ma è sempre stato in comunione con il Vescovo di Roma pur conservando la tradizione monastica e liturgica delle origini. In passato i monaci che lo hanno popolato provenivano in maggioranza dalle comunità albanesi di Sicilia e Calabria. Oggi sono rimasti in sei, e hanno l’improbo compito di trasmettere senza interruzioni la tradizione culturale, spirituale e liturgica della Chiesa bizantina, facendo riferimento a figure i cui nomi, Basilio il grande, Teodoro Studita, Massimo il Confessore, Giovanni Climaco, sembrano usciti della pagine del Nome della Rosa di Umberto Eco. Un po’ come sembrano essere usciti della pagine del suo romanzo i monaci con la barba lunga e il codino, il capo coperto da un cappello cilindrico (il Kùfos) e la lunga tonaca nera. E alle atmosfere del romanzo rimanda anche una tradizione che perdura in questo angolo dei Castelli Romani, quella legata al restauro di libri e manoscritti antichi.
Nel 1931, per volere dell’allora Ministero dell’Educazione Nazionale, venne fondato il Laboratorio di restauro del libro antico, il primo laboratorio scientifico preposto alla salvaguardia del patrimonio bibliografico italiano. Da secoli i monaci si prendevano cura dei manoscritti custoditi nel monastero, ma il bibliotecario dell’abbazia, padre Nilo Borgia, pensò che a Grottaferrata potesse nascere un laboratorio per i testi conservati in qualunque biblioteca del mondo. Il lavoro dei monaci non si limitava all’intervento materiale di restauro, ma portava avanti anche l’analisi bibliografica e scientifica. Nel 1962 i monaci ricevettero l’incarico forse più prestigioso: il restauro delle oltre mille fogli del Codice Atlantico di Leonardo (ora di proprietà di Bill Gates). Oggi il laboratorio di San Nilo è ancora aperto, al suo interno non si trovano più monaci ma solo tecnici laici specializzati. Da anni i basiliani mantenevano solo la direzione, ma non c’era più nessuno che trattasse i manoscritti. Così nel 2021 il laboratorio è stato rinnovato e dato in gestione ai privati, tra cui lo studio Crisostomo. Oggi come allora il laboratorio di San Nilo (laboratoriosannilo.it) si occupa di riportare in vita manoscritti e tutto ciò che è su carta, pergamena e cuoio.