Valsassina, tra malghe e poesia

La Valsassina è da secoli la patria di grandi produttori di formaggi. Ma il suo ambiente naturale intatto ha ispirato poeti del calibro di Antonia Po

Quartirolo, gorgonzola, taleggio, robiola, stracchini di ogni tipo. Nomi e sapori di formaggi diversi, accomunati dalla stessa origine geografica. Nel senso che oggi nascono e stagionano tutti nella stessa valle: la Valsassina, in provincia di Lecco. Una vallata che corre in quota parallela al lago di Como, solcata dal torrente Pioverna e incorniciata da scenografiche e aspre montagne, come le Grigne amate dagli scalatori. Secoli di tradizione e produzioni d’eccellenza hanno fatto di questa valle uno dei principali distretti del formaggio, nello specifico formaggi molli, italiano. Un posto dove, accanto a tante piccole fattorie casearie e malghe, sono nate alcune delle più famose industrie del settore. Una valle che, nonostante la presenza di queste grandi imprese, mantiene ancora quell’atmosfera di natura poco contaminata. Anzi la presenza di malghe, pascoli e casari ha contribuito a conservare e tutelare questi monti. Visitare la Valsassina è dunque un’occasione per compiere lunghe passeggiate, acquistare buon formaggio, scoprire la sopravvivenza di diversi stili di vita e assaggiare antichi sapori. «Il turismo nella Valsassina è nato contemporaneamente all’attività casearia e all’inizio del secolo scorso» dice Giacomo Camozzini, ideatore del progetto Valsassina la valle dei formaggi. «Questo legame deve servire da esempio, pensando anche ai nostri ragazzi, tentati a lasciare la valle per le città. Ma anche per loro qui può esserci storia e futuro, lavoro e identità. Un primo passo per poter continuare a valorizzare la valle nel prossimo futuro».

Raccontare la Valsassina significa allora parlare di storia, stagioni, biodiversità e materie prime di grande qualità. Sono quelle che regalano ai formaggi di queste terre quella morbidezza e quella pasta umida, dovuta all’alta presenza di acqua e alla tessitura elastica. Qui imperano quelli molli: quartirolo, gorgonzola, taleggio, robiola. D’obbligo allora la visita in una delle storiche aziende casearie che da poco ha festeggiato i cento anni di attività, la Mauri. Visita che rivela un patrimonio di saperi e sapori che s’intrecciano in un territorio intimamente legato ai formaggi. «Un’azienda dove le logiche produttive dei grandi numeri rimangono comunque ancorate alla tradizione e a un potente legame con il territori. Legame che storicamente arrivava fin nelle viscere della terra, perché quando non esistevano gli impianti di aerazione condizionata, dal grembo più profondo della Grigna l’aria fredda che usciva in alcune grotte veniva utilizzata per stagionare i formaggi. Oggi poche cavità vengono ancora utilizzate per la stagionatura, le altre hanno solo funzioni didattiche, sono state abbandonate in favore delle più prosaiche celle a temperatura controllata» racconta Franco Vizzardi, classe 1939, nipote di Emilio Mauri, fondatore dell’omonima industria. Seduto davanti al rifugio Antonietta ai piedi del Grignone Vizzardi racconta della sua infanzia a Pasturo, dove è cresciuto incartando taleggi, robiole e ricotte di giorno e compilando fatture di sera. «Il ricordo più vivo è il mio primo stipendio: ben 58mila lire. Ma conservo come un tesoro il buon rapporto che a distanza di 50 anni mi lega ai miei ex collaboratori. Dopo aver girato il mondo ora vivo in una baita a 1400 metri d’altitudine, e lassù, i silenzi e i panorami mai uguali contribuiscono a rilassare fisico e mente», racconta

Ottocento metri più in basso c’è Pasturo, paese di lunga storia, circondato da fertili pascoli al piano e in montagna, fra i più estesi della provincia, citato nei Promessi Sposi perché vi abitava la famiglia di Agnese. Nel capitolo 32 la madre di Lucia arriva qui per sfuggire all’epidemia di peste. Anche Napoleone ha calcato i selciati del borgo e, più recentemente, la poetessa e fotografa Antonia Pozzi trascorse qui i momenti più sereni della sua breve vita. Salendo a Pasturo abbiamo visto, disseminati per le vie del paese, 22 pannelli che riportano immagini e alcuni versi delle sue poesie. Per secoli l’economia della montagna, in Valsassina, è stata sinonimo di greggi, mandrie e di pastori, che nei quattro mesi estivi salivano fino agli alpeggi dove abbonda l’erba fresca. Anche l’arte casearia nella valle affonda le proprie radici in secoli di storia. A partire dal Cinquecento gli alpeggi più estesi furono affidati ai bergamini, allevatori e casari nomadi che hanno rappresentato i primi industriali del settore. I bergamini erano pastori benestanti con grandi mandrie che, producendo più latte di quanto gliene occorresse, cominciarono a vendere formaggi nelle città vicine, come Milano e Bergamo. Per secoli carovane nomadi si spostavano con la famiglia dalla pianura agli alpeggi della Valsassina. Vere carovane di carri, a chiudere la fila un asino che trasportava il pesante pentolone in rame indispensabile per realizzare il formaggio. Scendevano a valle alle prime avvisaglie dell’autunno e si mettevano in viaggio con la mandria, e con il latte appena munto dalle vacche stanche, in dialetto stracche dal lungo cammino, producevano gli stracchini. Ben presto i bergamini diventarono ottimi commercianti oltre che abili casari. Proprio dagli originari nuclei di bergamini che frequentavao la Valsassina nacquero le future grandi famiglie casearie: Invernizzi, Galbani, Mauri, Locatelli, Cademartori, Carozzi.

Ancora oggi, alcune famiglie residenti giù in valle in estate salgono in alto con il bestiame, infiacchito da mesi di immobilità in stalla e fieno secco e rinnovano antiche abitudini: il rito della mungitura, la preparazione dei formaggi, la breve stagionatura. E i tanti sacrifici come l’esilio in alta montagna, oggi molto più breve che in passato. Nonostante il miglioramento delle condizioni, pochi giovani seguono le orme dei nonni e dei padri. Tra questi Natalino Baruffaldi, quinta generazione di casari, e la moglie Antonella. Realizzano il loro taleggio con il latte di 60 vacche che da giugno tornano ad animare gli alpeggi della Val Biandino. I genitori di Antonella, transumanti per tutta la vita, le hanno tramandato l’arte del caglio e i tempi giusti di stagionatura; Natalino lavorava in un’azienda casearia in valle. Hanno deciso di mettersi in proprio e sistemare la vecchia stalla di Pasturo. «La parola d’ordine è sempre la stessa: passione per gli animali. E poi rispetto delle regole antiche del mestiere» spiegano. Anche se quattro mesi quassù in Val Biandino non sono una passeggiata: sveglia alle 3.45, mungitura, caseificazione, sorvegliare gli animali che si muovono come nuvole nel mare verde dei pascoli ai piedi del Pizzo Tre Signori. Poi la pausa ruminazione, unico momento in cui tacciono i campanacci. Quindi altra mungitura, cagliata nella caldera di rame, rottura della cagliata, salatura e via a stagionare». Questi i ritmi di Antonella e Natalino, ogni estate da 32 anni nell’alpeggio appena sopra Introbio. «Non bisogna produrre di più, ma produrre e vivere meglio» dice Natalino. «Ne vediamo di persone che fuggono dalla città per rifugiarsi almeno due giorni a ricaricarsi. Perché qui si respira aria buona, perché qui si fa moto, perché quassù si acquistano formaggi con l’aroma dei fiori di montagna».

Foto di Vittorio Giannella
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